Anche nel corso della realizzazione di chiese contemporanee avviene che intervengano cambiamenti che portino a esiti che svariano l’idea originaria del progetto. Ne nascono spazi ove si percepisce qualcosa di incongruente. Perché l’architettura ha una propria intrinseca coerenza, che va compresa e rispettata, anche quando si apportano modifiche.

La progettazione implica sempre qualche modifica: sia di un brano di panorama o di un singolo edificio. Vi sono casi in cui modifiche sono intervenute su chiese non già costruite, bensì in costruzione, e si prestano a compiere rilevanti osservazioni attinenti al modo di interpretare il compimento dell’opera di architettura.

E riconducono a domande emerse con particolare urgenza negli anni recenti: quale la corretta dinamica tra committente e architetto? Quale il grado di libertà di cui deve godere quest’ultimo? È l’architetto il “padrone” assoluto degli esiti dell’opera, come se fosse un pittore che dipinge un quadro? Tutte queste e altre domande si presentano con particolare afflato nell’ambito della costruzione delle chiese contemporanee: tema architettonico che consente un’inconsueta libertà espressiva alla creatività e all’arte dei progettisti, e per questo mette allo scoperto in modo limpido vari problemi coinvolti nella progettazione. Infatti solo nella progettazione delle chiese emergono con evidenza questioni attinenti alla simbolicità implicita dell’opera, al ruolo primario che ogni edificio nuovo riveste per il contesto, alla congruenza tra presentazione esterna e valori interni.

Soffermandoci su quest’ultimo aspetto, notiamo che persino in edifici di nuovissima costruzione si ravvisa a volte – il che parrebbe sorprendente – una certa incongruenza. Questo fatto dovrebbe portare a riflettere sulla coerenza che l’architettura nel suo complesso dovrebbe essere chiamata ad avere e che a volte invece non ha, soprattutto quando si parla di un organismo unitario e strutturato in una lunga tradizione qual è la chiesa. Congruenza per ottenere la quale forse occorrerebbe che il dialogo tra committente e progettista fosse primario, svolto con competenza da entrambe le parti e con convinta e responsabile e bene informata e formata partecipazione.

La pietra di paragone resta quella dei cantieri delle cattedrali medievali – v. Saint Denis dell’abate Suger, o i monasteri cistercensi di san Bernardo – opere di cui si conosce il nome del committente e non del progettista. Perché il committente sapeva bene quel che voleva ed era pertanto in grado di comunicarlo con precisione a chi disponeva delle capacità tecniche per compiere l’opera, anziché delegare tutto o quasi al facitore, per conseguenza trasformandolo in “demiurgo onniscente” votato a progettare dal cucchiaio alla città. Quasi che la forma esterna del disegno, inteso quale espressione artistica pura, possa essere capace di conoscere con intuito di pari profondità le necessità tanto di ogni singolo che siede a tavola, quanto di intere comunità urbane.

Presentiamo tre esempi, di chiese opera di progettisti di grande valore ed esperienza, per porre il problema. Perché, dal nostro punto di vista, non basta l’abilità dell’architetto: ci vuole anche una chiara visione del committente, mancando la quale il professionista finisce per operare su un terreno impervio, scivoloso, estraneo. Dove le sue capacità restano sminuite per eccesso di accentramento di responsabilità. E, pur se le architetture cui ha dato vita conservano l’imprintig artistico di chi le ha studiate, la loro finalità e congruenza resta priva di quel senso di completezza e coerenza che fa brillare nella storia le architetture meglio riuscite.

In esse manca qualcosa perché il committente è in realtà il primo progettista e non può abdicare al suo ruolo. Spetta a lui avere anzitutto le idee chiare su quel che vuole. Quando questo manca, l’architettura resta monca: né basta il nome o l’abilità dell’architetto per sopperire.

Le informazioni qui contenute sono state da noi raccolte nel corso di anni e di molteplici conversazioni con persone vicine o collaboratrici dei progettisti delle opere in questione. Le riproponiamo allo scopo di sollecitare un ripensamento sul ruolo che spetta al committente, ancor prima che all’architetto. Questi sarà pure il “capo dei costruttori” come vuole l’etimologia, ma è necessariamente dipendente da chi paga per l’operazione: per conseguenza resta influenzato dai desideri, ma anche dalle ubbie e dalle incertezze di quest’ultimo.

Va da sé che, qualora qualcuno conoscesse altri aspetti attinenti allo svolgimento delle vicende accennate, e volesse comunicarle, saremmo lieti di correggere quanto sia qui scritto che risulti impreciso.

Fondamentale sarebbe che prima di procedere a un’opera, sia questa commissionata sulla base di un concorso (che né è una previa garanzia assoluta, né è una postuma panacea, come si cerca di mostrare qui di seguito) o sia questa assegnata per manifesta capacità del progettista, chi la finanzia chiarisse fino in fondo le proprie idee.

D’altro canto, sarebbe anche responsabilità del progettista aiutare il committente a chiarirsi le idee attraverso il dialogo previo. Ma il progettista per solito, tranne rari casi, è interessato ad altro.

E la fretta, e forse anche la presunzione di tutto conoscere già, a volte impedisce tutto questo.

Caso 1 Il nuovo edificio del santuario di S. Pio a San Giovanni Rotondo, opera di Renzo Piano (1994-2004)

Santuario di San Pio, progetto Renzo Piano. L'ingresso principale ? stato spostato dal sagrato alla parte posteriore.
Santuario di San Pio, progetto Renzo Piano. L’ingresso principale è stato spostato dal sagrato alla parte posteriore.

I frati francescani vollero assegnare a Renzo Piano il progetto: insistettero malgrado la reticenza di quest’ultimo e alla fine l’architetto genovese accettò.

Da informazioni di seconda mano risulterebbe che, fidando nella chiara fama del progettista, i committenti gli abbiano dato poche indicazioni, se non che l’edificio del nuovo santuario avrebbe dovuto essere capiente ma allo stesso tempo capace di esprimere l’umiltà che è una della caratteristiche del francescanesimo.

Non solo, poiché imponenti sono le masse di fedeli che nei mesi caldi vi affluiscono, che si potesse celebrare anche sul sagrato antistante.

Ed ecco che nacque il disegno di un edificio dilatato in orizzontale ma non in verticale, in pianta a chiocciola, imperniato su un pilone centrale che avrebbe dovuto segnare il luogo della sepoltura di s. Pio nella cripta.

La forma a chiocciola fu immaginata da Renzo Piano come definita da una raggiera di archi ribassati in pietra, come una navata avvolgente. L’arco maggiore sarebbe stato quello prospettante sul sagrato, come un grande gesto di accoglienza: sotto l’arco, una vetrata avrebbe dovuto potersi aprire totalmente così da consentire nei mesi caldi di celebrare verso il popolo assiepato all’esterno. All’uopo, l’altare fu in un primo tempo concepito come collocato presso la grande parete vetrata apribile, così da servire, sia per le celebrazioni all’interno, sia per le celebrazioni all’esterno.

Vista aerea del complesso, col vasto sagrato antistante e gli archi della grande vetrata che vi prospettano.
Vista aerea del complesso, col vasto sagrato antistante e gli archi della grande vetrata che vi prospettano.

Ma poi successe qualcosa e probabilmente ci si rese conto che nel caso delle celebrazioni all’aperto la sistemazione avrebbe potuto funzionare, ma avrebbe presentato problemi per le celebrazioni da svolgersi all’interno, sotto l’intreccio degli archi.

Nella prima fase del progetto l’opera di consulenza liturgica fu svolta dal teologo p. Giacomo Grasso.

Poi, a opera iniziata, venne chiamato a intervenire il liturgista mons. Crispino Valenziano. Quest’ultimo trovò che l’architettura fosse di grande valore ma perentoriamente affermò: “non è chiesa!”. Per renderla tale dunque, volle introdurre un camminamento assiale interno che valorizzasse l’altare. Questo fu spostato dalla zona della vetrata-facciata e collocato in prossimità del pilastro centrale. E il camminamento assiale a quel punto non poteva più partire dalla vetrata-facciata prospettante sul sagrato. Ed ecco che l’ingresso fu spostato in quella parte che risulta, per chi viene dal sagrato (ovvero dal principale percorso di avvicinamento), secondaria e posteriore.

Prospettiva interna verso l'altare. Questo rimane soffocato dalla presenza el pilastrone centrale in cui convergono gli archi che definiscono struttura e architettura interna. (foto da Flikr)
Prospettiva interna verso l’altare. Questo rimane soffocato dalla presenza del pilastrone centrale in cui convergono gli archi che definiscono struttura e architettura interna. (foto da Flikr)

Il risultato fu che per entrare occorre girare attorno al perimetro del nuovo santuario e, per quanto nobilitato dall’invenzione architettonica di una “vela” quadrangolare che lo sovrasta, l’ingresso – momento che dovrebbe essere fondamentale nell’architettura della chiesa, segnando la principale tra le soglie che demarcano il cammino di avvicinamento al cuore del luogo di culto – a sua volta risulta alquanto derelitto.

All’interno il percorso verso l’altare, per quanto evidenziato dal camminamento diritto, rimane comunque non evidente, perché attraversato dalla tensione che si snoda in direzione avvolgente e attraversa ortogonalmente l’asse disposto tra ingresso e altare, nella foresta di archi in pietra che caratterizzano l’architettura interna.

L’ingresso sul retro dell’edificio inoltre sminuisce la rilevanza della grande vetrata-facciata.

Non solo, lo stesso altare resta soffocato dall’incombere del pilastrone centrale, che rimane come protagonista assoluto dello spazio.

Conclusione: l’architettura era impostata su un chiaro concetto: un pilastro che segna il luogo di sepoltura di s. Pio e, irraggiantesi di qui a ventaglio, lo spazio dell’aula celebrativa potenzialmente apribile verso il sagrato. Se tale concetto era sbagliato, avrebbe dovuto essere radicalmente ripensato, non riadattato in modo comunque pasticciato. Se poteva essere corretto, doveva esserlo accettando, non stravolgendo la logica sulla quale era stato costruito, che era quella dello sviluppo avvolgente delle navate: un concetto nuovo, originale, difficile, ma non impossibile.

Ed ecco che ci si ritrova con uno dei maggiori architetti del mondo e un dottissimo liturgista che si sono incontrati senza riuscire a generare un insieme armonico, bensì giustapponendo due visioni di per sé lontane tra loro, incapaci di armonizzarsi.

Una grande occasione perduta per difetto di pianificazione all’origine.

Il santuario di San Pio resta una grande opera architettonica che segna un luogo di eccezionale valore paesistico e permarrà nella storia. Sul piano tecnologico i grandi archi ribassati in pietra, tenuti da tiranti interni, rappresentano in modo singolare una reinterpretazione innovativa della storia dell’architettura secondo criteri contemporanei. Ma nell’opera così come oggi si presenta vi sono tante incongruenze che offrono lo spunto per ulteriori riflessioni: magari in futuro vi sarà chi sappia proporre soluzioni migliori, capaci di recuperare la coerenza perduta.

Caso 2 La chiesa di Gesù Redentore a Modena, opera di Mauro Galantino (2001 – 2008)

Proseptto esterno del complesso parrocchiale (foto courtesy Mauro Galantino)
Prospetto esterno del complesso parrocchiale (foto courtesy Mauro Galantino)

L’architetto Mauro Galantino non gode della fama di Renzo Piano, ma è uno tra i protagonisti della progettazione in Italia e un sapiente interprete del razionalismo rivisto in modo evolutivo.

Col suo progetto per una chiesa a Modena vinse la seconda edizione dei concorsi Progetti Pilota indetti dalla Conferenza Episcopale Italiana. Qui le richieste del committente erano chiare. Ma non erano stati fatti tutti i conti con la comunità parrocchiale: i “Progetti Pilota” privilegiavano il “vertice” con l’intenzione di garantire la qualità del prodotto evitando ingerenze derivanti da connubi impropri a livello locale tra committente e progettisti amici.

La comunità parrocchiale, beninteso, accolse il progetto della chiesa di buon grado, ma, abituata a celebrare secondo la sistemazione a “Communio Raum”, non volle saperne della sistemazione liturgica “a battaglione” proposta nel progetto già approvato in sede nazionale. Per conseguenza, il progetto venne mantenuto ma la sistemazione liturgica fu cambiata: del resto, l’aula a pianta rettangolare sembrava consentire facilmente tale risistemazione.

Sistemazione liturgica a Communio Raum (foto courtesy Mauro Galantino)
Sistemazione liturgica a Communio Raum (foto courtesy Mauro Galantino)

Ora la chiesa si presenta col suo volume stereometrico nitido, fondato su una maglia rettangolare, ma l’aula liturgica all’interno si impernia sul dialogo tra il poderoso (e forse eccessivo) ambone e l’altare, mentre il popolo celebrante si dispone ai due lati dell’asse che unisce i due poli liturgici.

Nulla all’esterno dell’architettura lascia supporre che vi sia questa sistemazione liturgica che per l’Italia è relativamente inconsueta. Pur essendo nata insieme col cantiere della chiesa, la particolare sistemazione liturgica non imprime nell’architettura alcun segno distintivo: non è infatti stata concepita tale dal progettista, che si è limitato a considerare l’edificio un contenitore entro il quale potessero avvenire liberamente i cambiamenti richiesti dal committente locale, quando l’architettura era già stata accettata dalla committenza nazionale.

Non avrebbe avuto più senso che l’aula fosse riconcettualizzata con una base ellittica, o quanto meno con pareti laterali stondate? Non avrebbe avuto senso rinunciare all’impostazione ortogonale dell’insieme, visto che il cuore del centro parrocchiale è una chiesa raccolta secondo una bipolarità che genera un’ellisse? Non avrebbe avuto senso evitare che il “peso” dell’ambone divenisse così prevalente su quello dell’altare?

Le pareti interne son ostate rivista per accogliere la distribuzione ellittica dell'assemblea. (Foto courtesy Mauro Galantino)
Le pareti interne sono state riviste per accogliere la distribuzione ellittica dell’assemblea. (Foto courtesy Mauro Galantino)

Sono dubbi: resta il fatto che il progetto nacque per un sistemazione dell’assemblea a fronte dell’altare e finì con il “Communio Raum” che è qualcosa di totalmente diverso. Senza che con questo l’architettura, che pure dovrebbe avere una sua intrinseca coerenza, sia stata in nulla variata. Un po’ come dire che l’architettura è un contenitore neutro, e la chiesa vi si inserisce a posteriori, ricercando le soluzioni che paiono più opportune: disegno e funzione restano scollegati.

Il che va contro quel che i liturgisti da anni si affannano a sostenere: che la chiesa va progettata in modo coerente e a partire proprio dalla sistemazione liturgica interna. Che la chiesa non può essere un contenitore nel quale solo dopo la costruzione si pensa allo “arredo” liturgico, quasi che questo sia un aspetto secondario. Ma che con il proprio disegno sia in grado di rappresentare all’esterno quanto vi avviene all’interno.

Ecco dunque un altro caso in cui c’è stata una cospicua mancanza di concezione previa ben studiata e approfondita: per difetto di dialogo. Il progetto è partito senza tenere conto del committente ultimo, che è la comunità cui la chiesa è destinata.

Ne è risultata un’architettura di valore, con una sistemazione liturgica innovativa, ma tra loro le due cose stridono: l’architettura di per sé richiederebbe un’aula sistemata “a battaglione”. A meno che con cura, attenzione, genialità si riesca a ripensare il tutto per individuarvi quella nuova coerenza oggi mancante.

(Occorre aggiungere che dal 2012 i concorsi della Conferenza Episcopale sono rimodulati con uno stretto accordo con la comunità cui la chiesa è destinata, per cui si suppone che questo tipo di problemi si eviti per il futuro).

Caso 3 La chiesa Dives in Misericordia di Roma, opera di Richard Meier (1995 -2003)

Quando si profilò la prospettiva del Grande Giubileo di fine millennio, il Vicariato di Roma lanciò un grande programma per dotare le tante borgate e periferie urbane di nuovi centri parrocchiali degni, e tra l’altro volle indire un concorso di valore internazionale che rilanciasse il centro della cristianità occidentale anche sul piano della tradizione architettonica.

Questo anche perché il programma “50 chiese per Roma 2000” era partito male, con un concorso di idee aperto a chiunque, per due centri parrocchiali periferici, che vide una partecipazione moltitudinaria ma dagli scarsissimi risultati: fu assegnato un premio solo per Acilia, mentre Tor Tre Teste, l’altra area messa a concorso, non trovò un vincitore. Nel complesso il concorso di idee rilevò che la qualità diffusa delle idee progettuali presentate era scarsa.

Con la collaborazione di colui che era il maggiore critico dell’architettura del momento, Bruno Zevi, furono allora scelti sei progettisti di chiara fama (Tadao Ando, Günter Behnisch, Santiago Calatrava, Peter Eisenman, Frank O. Gehry e Richard Meier ) e si indisse un nuovo concorso nel 1995. Per quanto si possa discutere sulla scelta dei nomi, erano tutti progettisti di grandissimo valore e questo doveva garantire la qualità dell’opera. Il fatto che fossero invitati solo progettisti stranieri contribuì a portare l’architettura contemporanea di Roma sotto i riflettori del mondo.

Vinse Richard Meier con un progetto ormai notissimo: tre conchiglie (sezioni di sfera) di altezza digradante dall’asse mediano verso l’esterno, raccordate da vetrate trasparenti su due lati e in copertura.

L’elemento maggiore si eleva per 26 metri e col suo biancore segna il punto più alto del quartiere, in tal modo individuando un luogo di riferimento che dona centralità e carattere a questa periferia romana.

Un’architettura di valore. Ma anche qui si pone la domanda: è una chiesa?

Il progetto di Meier non specificava in quali materiali dovesse essere costruito il complesso: fu scelto il cemento a seguito della sponsorizzazione offerta da un grosso gruppo cementifero.

Le “conchiglie” furono realizzate con notevoli difficoltà tecniche data la pesantezza del materiale: in compenso, in omaggio ai desideri e alla tradizione razionalista di Meier, si presentarono bianchissime e con l’innovazione di aver inserito in pasta il biossido di titanio che doveva garantire di mantenere autopulite le superfici, perennemente bianche.

La chiesa Dives in Misericordia, gi? provata dal tempo e dall'inquinamento (foto da Wikiperdia)
La chiesa Dives in Misericordia, già provata dal tempo e dall’inquinamento (foto da Wikiperdia). La fotografia qui sotto è del 2013.

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Il problema è che le fughe tra i blocchi quadrangolari che con grande dispendio tecnico furono costruiti e montati, evidentemente mancano di tale sostanza che riduce le impurità dell’aria, e forse la concentrazione del biossido di titanio sulle superfici è insufficiente (e quello entro lo spessore dei blocchi ovviamente non ha efficacia all’esterno, cosa cui forse i tecnici non pensarono): fatto sta che già a una decina di anni dalla costruzione il grigiore ha cominciato a farsi vedere e a impoverire e svilire i prospetti esterni dell’insieme, diminuendo assai il valore iconico dell’architettura. Le novità vanno ben soppesate e conosciute prima di essere applicate…

L'abbondanza di vetrate trasparenti toglie l'effetto soglia all'ingresso.
L’abbondanza di vetrate trasparenti toglie l’effetto soglia all’ingresso (foto del 2005).

Il fatto che l’architettura determina un’autentica centralità, prima mancante nel quartiere, è stata da subito contraddetta dal fatto che, per motivi di sicurezza, il lotto del complesso parrocchiale è stato circondato da un muretto: il sagrato ne resta recluso. Un po’ come se sbarrassero l’accesso a piazza San Pietro in Vaticano… Può un sagrato essere separato? In questo caso cessa di essere luogo di incontro tra chiesa e città e diviene ambito riservato, si cancella il senso dialogante di apertura che è proprio della piazza della chiesa. Beninteso, nella tradizione tardo antica si trovano tanti quadriportici che definiscono sagrati ben delimitati: ma il quadriportico colonnato mantiene una trasparenza che un muretto ovviamente non ha.

Infine, quel che definisce il rapporto tra chiesa e mondo esterno è una successione di soglie significative che accompagnano chi entra così da demarcare la rilevanza del cammino di accesso all’edificio e di approssimazione al centro del luogo di culto. Qui a Tor Tre Teste invece le vetrate totalmente trasparenti fanno sì che venga totalmente a mancare quella variazione luministica che è una delle caratteristiche più evidenti dei percorsi di accesso alle chiese. In pratica, si cancella la gerarchia di soglie che rendono significativi i passi di chi entra in chiesa. Si stia fuori o dentro, l’intensità luminosa è sempre la stessa: non si notano differenze. Non vi sono soglie luministicamente evidenti.

E una volta dentro, che si vede? Sulla sinistra un pietrone ovoidale è la vasca battesimale: sembra un oggetto dimenticato in un luogo inappropriato, vuoto di contenuto significativo. Nulla “dice” che è il luogo di iniziazione alla comunità cristiana. Un oggetto, non un segno: il che deriva non tanto dalla conformazione dell’oggetto, ma dalla sua collocazione architettonica, che appare più o meno casuale, a parte il fatto che è prossima all’ingresso-non ingresso.

Vista interna dell'aula.
Vista interna dell’aula. Data la sistemazione a battaglione dell’assemblea, risulta curiosa la positura dell’altare: questo, oltre a essere spostato sulla destra e non centrale, resta schermato dalla luce esterna per via della parete posteriore. Assumono maggiore centralità e rilevanza la sede del presidente e il leggio.

Le panche sono disposte a battaglione verso l’altare: ma questo è nascosto in un ambito dove i valori luminosi sono particolarmente bassi: sul fondo, un poco sulla destra. Un faro da campo sportivo piazzato sopra di esso difficilmente rende evidente la sua presenza: l’insieme architettonico non è pensato per valorizzare il centro focale del luogo di culto.

L’acustica dell’aula è pessima: le pareti in cemento sono sorde e prive di vibrazione, come un mausoleo in cui pesa il silenzio, laddove invece dovrebbe aleggiare la parola.

La conchiglie che si susseguono sulla sinistra dell’assemblea gravano con le loro pareti ricurve e spesse, e danno un senso di oppressione. Sono prive di luce e di colore.

A guardare in alto si nota, molto più evidente dell’altare e sopra di questo, un crocifisso che, proiettato in avanti da un volume quadrangolare, stabilisce un dialogo aereo con l’organo posto sul coro sopra l’ingresso da parte opposta. Quasi che protagonista di questo spazio non sia l’assemblea raccolta attorno all’altare, ma questo aereo dialogo biunivoco e autosussistente tra crocifisso e organo.

L'organo sopra l'ingresso. (foto da Flikr)
L’organo ben visibile sopra l’ingresso stabilisce un dialogo aereo col crocifisso posto sopra la pedana dell’altare. (foto da Flikr)

Sulla destra, la parete che riveste il muro mediano che separa-unisce la chiesa alle strutture parrocchiali raccolte in un volume scatolare, è rivestita in legno: unica presenza che rende un minimo di calore nell’insieme asettico, freddo e distante dell’aula.

Ci si trova di fronte a un’architettura di grande rilevanza, molto studiata, articolata nel succedersi di conchiglie o “vele” digradanti che assumono potenzialmente il senso trinitario e che potrebbero esprimere dinamicità e raccoglimento. Ma l’elaborazione materica del tutto, la definizione dell’insieme liturgico, le qualità luministiche e acustiche sono tali da svilire il complesso.

L’architettura andrebbe ripresa nelle sue potenzialità espressive, ma radicalmente rivista per trasformarla in una chiesa. Cosa più che possibile, visto che vi sono tutte le possibilità di elaborare vetrate istoriate che rendano la dovuta variazione luministica (si pensi per esempio a come la cattedrale di Brasilia, progettata da Oscar Niemeyer come un duplice cono iperbolico totalmente vetrato sia stata elaborata in modo tale da offrire con nettezza il senso del passaggio tra dentro e fuori e da suggerire il dovuto senso di raccoglimento all’interno). Il rapporto tra assemblea e altare può essere rivisto, per esempio ruotando l’asse di 90°, così da rendere più evidente l’altare e da accentuare la prossimità tra questo e i fedeli riuniti. La sorda resa acustica dell’interno può essere corretta adottando rivestimenti adatti, e magari usandone in modo tale da vivacizzare l’insieme, introducendo per esempio variazioni cromatiche che accompagnino superfici non solamente piatte. Le potenzialità offerte dalle tre conchiglie potrebbero essere valorizzate con l’aiuto di elementi artistici. Il luogo del fonte battesimale può essere nobilitato, per esempio considerando elaborazioni pavimentali che portino un momento di distinzione e di accentuazione visiva.

All’esterno, se è vero che le pitture a biossido di titanio sono in grado di garantire per un cospicuo numero di anni la pulizia delle superfici, la chiesa andrebbe totalmente ripitturata (evidentemente mettere il biossido di titanio in pasta non basta) e resa al biancore uniforme che dovrebbe caratterizzarla.

Insomma: un’architettura significativa come questa può essere trasformata in una chiesa. Ma questo può avvenire solo se si accetta che l’opera è ancora da compiersi, e che va pensata sulla base dell’esperienza sin qui cumulata.

Quando chi scrive chiese a Richard Meier se si fosse rivolto a qualche liturgista per avere suggerimenti sulle sistemazioni liturgiche della chiesa, questi rispose vagamente indicando di aver raccolto informazioni qui e là: nulla di sistematico insomma, nulla di approfondito. E questo per quella che doveva essere la più rilevante chiesa romana contemporanea, segno e simbolo del Grande Giubileo del 2000: un curioso esempio di superficialità.

Certo un grande progettista come Meier avrebbe potuto impegnarsi ad approfondire meglio il senso dell’architettura della chiesa, il suo rapporto con la città, il suo rapporto con il popolo celebrante. Ma evidentemente il committente non s’è impegnato molto per informarlo e formarlo al progetto. A che cosa stava pensando il committente? Mistero.

Oggi sarebbe importante un ripensamento, ovviamente in questo includendo una revisione del processo che ha portato a questo esito: non per recriminare, ma per imparare: errare humanum est

 

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