A proposito della mostra “La luce del sacro” sulle architetture di carattere ecclesiastico progettate da Paolo Zermani e svoltasi nel Palazzo della Gran Guardia di Padova, nel periodo 29 ottobre al 25 novembre 2016. Organizzata dall’Associazione Culturale Di Architettura in collaborazione con il Settore Urbanistica e Servizi Catastali e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, l’esposizione si è svolta nell’ambito di Padova 2016 architettura, ampio cartellone di eventi su temi cari all’architettura, presentati al pubblico con mostre, dibattiti e conferenze. Data la sapiente raffinatezza del progettare di Zermani, la mostra si presta a considerazioni di ampio spettro relative al rapporto tra Chiesa e architettura contemporanea.
Il problema generale delle esposizioni di architettura, è che queste si riferiscono ad ambienti che vanno esperiti attraversandoli e “abitandovi”, mentre se ridotti alle dimensioni osservabili non da dentro ma da una prospettiva esterna e lontana, qual è quella di chi visita la mostra, perdono l’essenza del loro essere architettura.
Con questi limiti, d’altro canto, ogni mostra di architettura consente di acquisire una specifica immagine: quella del modo in cui la forma si pone nello spazio cronologicamente definito. Ovvero non tanto dell’intorno specifico nel quale si costruisce ed evolve il genius loci, bensì lo spazio inteso quale momento storico nel quale la sensibilità e la comunicazione viaggiano secondo gusti la cui variazione è data dall’accumulo di risonanze che le persone sono abituate ad assorbire dalla cultura diffusa.
Oggi, quando il tema della chiesa, o più in generale del luogo collegato all’esercizio della religione, è fortemente contrastato e ai più sembra perlopiù essere carente del carattere ben definito associato alle architetture storiche, riesaminare l’argomento in una mostra che raccoglie tutti i volumi preparati per finalità legate alle religione da un singolo autore può essere esercizio significativo. Soprattutto se tale autore è di quelli che uniscono all’abilità progettuale una ben sedimentata cultura del fatto religioso.
Le prime opere di Zermani collegate a testimonianza di carattere cultuale, furono esposte alla Biennale di Venezia dedicata alle tre religioni del Libro, “Architettura e spazio sacro nella modernità” (1992). Egli ha sempre lavorato su forme in cui la geometria è elaborata con speciale attenzione ai percorsi e agli effetti di illuminazione-ombreggiatura, composte con il mattone, in questo unendo contemporaneità e legato storico.
Non a caso è un tipo di approccio che contraddistingue, mutatis mutandis, un altro grande progettista di luoghi per il culto dei nostri giorni, Mario Botta.
Nell’epoca della sovraesposizione alle suggestioni immaginifiche, la ricerca dell’essenzialità acquista valore pregnante. Il noto detto di Mies van der Rohe cattura l’essenza di questo fatto e segna anche la nostalgia della forma strutturale tipica delle architetture romaniche a differenza del viraggio espressionista assunto dalla progettazione col gotico e ancor più col barocco.
Il romanico rivisitato attraverso i ripensamenti del razionalismo riesce a distillare una squisitezza compositiva che tende a togliere qualsiasi aspetto superfluo per rendere l’organizzazione degli ambienti alla vicinanza con l’azione che essi sono destinati a ospitare.
In quest’opera, l’aspetto simbolico che è necessariamente dato all’architettura ecclesiastica, emerge proprio nella purezza dell’insieme recuperato a un’unitarietà capace di incapsulare l’idea di perfezione, proprio in quanto forma compiuta, completa.
Per riferirsi a un paragone assai profano, si pensi al monolite collocato da Stanley Kubrick a emblema della proiezione sovratemporale del cammino dell’umanità nel suo noto film “Odissea nello Spazio” (1968): nell’evolversi del dramma, e nel tentativo di ricapitolarvi in breve lasso di tempo il cammino evolutivo della specie umana, il regista individuò nella forma geometrica pura un richiamo all’idea di permanenza pur nella mutevolezza dei tempi.
In fondo è questo il messaggio che oggi la chiesa edificio va cercando: non un ritorno a un passato che comunque permane nelle testimonianze storiche tramandate e conservate nel tempo, ma la ricerca della continua presenza di quanto resta ed è essenziale, pur nel trascorrere del tempo e pur nel mutare delle mode (ché anche le architetture sono soggette alle variazioni delle mode, seppure qui assumono il nome più altisonante di “stili”).
Dunque la mostra svoltasi a Padova delle opere studiate da Paolo Zermani per il “sacro” presenta il duplice interesse di consentire di osservare i suoi volumi precisi, nitidi, pienamente definiti nella loro completezza che, in quanto tale, assume il senso del segno e del simbolo del permanere pur nello scorrere del tempo, e contemporaneamente consente di godere della contrapposizione tra i modelli di tali architetture e il salone affrescato in piena epoca barocca, in cui sono collocate.
Un’occasione per ripensare il cammino del progettare architettonico per la chiesa dei nostri giorni, alla ricerca di quel che permane pur nel trascorrere tumultuoso dei tempi.
(foto M. Davoli, courtesy studio Zermani)