di Alessandro Bellini e Francesca Leto

Il workshop canPO si inserisce in un contesto affascinante, quello del Delta del Po, ancora poco conosciuto nonostante sia la foce del più lungo fiume italiano e una delle zone umide più importanti d’Europa.

Da qualche anno è entrato a far parte della rete Mab dell’Unesco. Di questo patrimonio e del paesaggio in genere, tramite questa attività, si vuol fornire una maggior consapevolezza delle componenti materiali e immateriali che lo compongono.

Il workshop vuole anche essere seme di un’azione virale programmata, capace di innescare meccanismi virtuosi di conoscenza e valorizzazione dei percorsi arginali ed essere un nuovo campo di operatività e pensiero.

L’attività si svolge nel comune di Corbola (RO), all’Interno del Parco Regionale del Delta del Po, ed è stata ospitata inizialmente nella rassegna DeltArte, curata da Melania Ruggini; questa edizione ha visto una nuova collaborazione con l’associazione OHT | Office for a Humat Theatre. Il laboratorio, nato dal fruttuoso incontro tra gli architetti Alessandro Bellini, Emilio Caravatti e Paolo Mestriner, ha trovato nel Delta terreno fertile per una sperimentazione architettonico-didattica.

Nella prima edizione del workshop, canPO #01, si è identificato un punto, prossimo al centro urbano, in un luogo caro alla comunità. L’intervento si è concretizzato in una ripulitura dell’area di progetto, che invitava la comunità a riappropriarsi del luogo, e nella costruzione di un piccolo dispositivo. Un’altalena, posta a conclusione dello spazio, funge da rimando ludico e simbolico: l’idea di riavvicinare il fiume alla città.

Con la seconda edizione, canPO #02, si è tracciata una linea. L’area scelta è prospicente all’isola del Balutìn in cui il professor Luigi Salvini diede vita dal 1946 al 1955 alla Tamisiana Repubblica (indipendente) di Bosgattia. La micro architettura di questa edizione diviene camminamento, punto intermodale, informativo e osservatorio, verso l’Isola in cui sorgeva la “vecchia Repubblica”.

Con la terza edizione, canPO #03, si è realizzato un percorso. Grazie al confronto con la locale associazione dei pescatori, si è pensato a una piccola struttura capace di accogliere uno-due pescatori per la particolare pesca detta del “carp-fishing“, tipica nella zona. Confrontandosi con il tema dell’ospitalità diffusa e desiderosi di proporre nuovi modi per abitare l’argine, il dispositivo è stato pensato per offrire rifugio anche ad altri possibili fruitori.

La mappa del sito prescelto.

La quarta edizione del workshop, rispetto al percorso fatto, ha portato ad un “ritorno” sempre secondo una modalità di azione su punti del territorio, quasi fosse un’agopuntura su un corpo bisognoso di cure.

L’area di quest’anno è caratterizzata da un tipico borgo rurale dei primi del ‘900 e, sempre in questa zona, Giovanni Pico della Mirandola era solito soggiornare nei suoi viaggi tra Ferrara e Venezia e proprio qui compose il sonetto: “Alla ricerca della vita quieta”.

L’edizione di quest’anno, canPO #04, quasi seguendo il percorso iniziato da Pico della Mirandola, ha trattato il tema “L’Espace Intérieur”.

Il tema, strettamente legato a quello dello spazio sacro, propone un luogo meditativo capace di fungere, oltre che come osservatorio, da dispositivo capace di relazionarsi con l’intorno e con la luce: un piccolo framezzo tra terra e cielo. L’uomo, infatti, costruisce sempre tra la terra e il cielo, ma quando edifica uno spazio sacro, quel frammezzo ha come fine raggiungere il Cielo. Lo spazio sacro allora diventa una soglia, la differenza. La meta dell’homo religiosus, che è sempre homo viator, non è nello spazio stesso, ma è “oltre”. Questo “oltre”, nella cultura occidentale, sta in alto e davanti a noi. Uno dei concetti fondamentali della teoria dell’architettura di Norberg-Schulz è “l’uso del luogo” suddiviso in momenti che sintetizzo nella triade: percorso, soglia, meta. L’uomo dunque, nel suo cammino della vita, passa da un luogo all’altro, arriva a delle mete, ma sempre attraversando soglie. Questo stare tra un luogo e un altro luogo, cioè sulla soglia/limen si concretizza nell’esperienza liminale, ed essa è costitutiva dell’esperienza religiosa stessa, essendo quest’ultima un’esperienza, un “vivere attraverso”: un viaggio tra trascendenza e immanenza. La liminalità ha a che fare con un passaggio materiale tra una parte e un’altra e, in questo attraversamento, il confine gioca un ruolo primario. La liminalità risulta dunque essere strettamente legata alla concretezza dello spazio. Nello spazio sacro, dunque, avviene un incontro polare tra immanenza e trascendenza e anche l’esperienza religiosa, che è di natura liminale, ha a che fare con lo stare nel mezzo tra queste due polarità; se ne deduce che lo spazio sacro è ciò in cui e con cui è possibile un’esperienza religiosa. Il passaggio tra il sacro e il profano, spazialmente ben rappresentato dalla sequenza percorso soglia e meta, può avvenire solo attraverso uno stadio intermedio ritualizzato: il rito di passaggio. Ampliando l’accezione originaria di rito di passaggio, asserendo che tutti i tipi di rituale sono strutturati secondo la forma processuale del passaggio, si giunge ad affermare che tutti gli spazi sacri sono strutturati secondo la forma liminale. Lo spazio sacro, dunque, è liminale e costitutivo del rito stesso, quindi anch’esso ha il potere di creare un mondo, un microcosmo in cui vige il linguaggio metaforico.

Ma la preghiera personale, la meditazione sono un rito? L’antropologia culturale risponde affermativamente. L’idea di spazio interiore, interiorità, intimità, è un luogo in cui uno si ritira in sé, si isola dagli altri e dal mondo. Si tratta, in origine di un topos propriamente cristiano del quale nel tempo se n’è appropriato anche il pensiero filosofico laico. Questa camera è il centro dell’anima o dello spirito, il luogo più segreto, la coscienza. Lo spazio interiore è dunque metaforizzato attraverso una camera, una figura spaziale che permette di formulare, organizzare, costruire un’esperienza umana. Sappiamo che l’uomo fa uso di metafore in generale e in molti casi di metafore spaziali per esprimere concetti o esperienze “astratte” in base all’esperienza vissuta. Dunque, per offrire la medesima esperienza non ci resta che ricreare spazi capaci di “ri-accendere” l’entrata in relazione con il nostro luogo segreto. La messa in opera di questo spazio interiore, del cubiculum cordis, stanza dello spirito, si rende necessaria. Ciò che andrà costruito sarà un luogo capace di “far entrare” e di “far uscire” da questo luogo interiore, uno spazio che possa offrire l’esperienza della preghiera o della meditazione che, posto sul cammino fisico della nostra vita, sia capace di “invitarci” a sostare e a entrare nella camera e a chiudere la porta.

Percorso metodo/costruzione

Il giorno 10 Settembre, all’apertura del laboratorio i partecipanti sono stati introdotti all’area del Delta, al tema del laboratorio e accompagnati a visitare gli interventi delle passate edizioni.

Il workshop di architettura-autocostruzione ha visto la partecipazione di undici studenti e, come tutors, gli architetti: Alessandro Bellini, Emilio Caravatti, Paolo Mestriner, il prof. Gian Luca Brunetti e l’architetto-liturgista Francesca Leto.

Data l’area in cui operare, si è scelto l’esatto punto in cui collocare il manufatto.

Vi sono dei dati di partenza fissi quali la quantità e il tipo di materiale a disposizione: morali e tavole in legno, impregnante all’acqua color nero, la dimensioni della base di appoggio.

Il progetto non è deciso a priori, ma viene sviluppato durante il laboratorio. Agli studenti, suddivisi in gruppi di lavoro, è stato dato il compito del rilievo dell’area e di definire una proposta progettuale.

Le proposte

A partire dalle le tre proposte, è stato sviluppato un lavoro congiunto per arrivare a una sintesi capace di riassumere gli elementi positivi di ciascuna proposta, di rappresentare tutti i partecipanti e da realizzarsi in un tempo ridotto, pari ai tre giorni rimanenti.

I gruppi sono stati poi sciolti e sono state formate squadre che potevano essere modificate durante l’iter progettuale e realizzativo, per ragioni di efficienza del processo, ma anche di didattica, ovvero per dare l’opportunità a tutti i partecipanti di fare esperienza delle varie fasi del processo progettuale-costruttivo: la misurazione, lo studio di uno snodo, il taglio del materiale, la verniciatura, l’assemblaggio etc.

Per la costruzione, gli elementi sono stati prototipati e prefabbricati in una differente zona e solo successivamente assemblati sul sito prescelto. Questo per ragioni autorizzative, tecnico logistiche e di sicurezza. Per motivi di affidabilità idraulica, il dispositivo è stato pensato per essere facilmente rimovibile.

Mercoledì 12 settembre, si è iniziato a predisporre il cantiere nell’area provvista di energia elettrica e servizi. Si è iniziato con il taglio del materiale e dalla “messa in mostra” del modulo di base originante la microarchitettura. Contemporaneamente è iniziata la verniciatura del materiale depositato presso l’area affinché fosse possibile il taglio e l’assemblaggio dello stesso a partire dal giorno seguente.

Maquette

La microarchitettura è stata sviluppata sulla verticalità e caratterizzata da una facciata/struttura in morali di legno. La composizione della stessa è stata studiata al fine di renderne chiaro l’assemblaggio in cantiere e capace di mantenere il baricentro il più basso possibile oltre a evitare la possibile arrampicata.

Montaggio

La base in legno, con i primi corsi di morali, è stata trasportata il giorno seguente e agganciata alla base in cemento armato di recupero. Mentre un gruppo ha proseguito la struttura in elevazione formata dai corsi di morali, un piccolo gruppo ha continuato la verniciatura del materiale da assemblare.

Il progetto contemporaneamente ha continuato ad essere affinato ed è terminato con la messa in posa del rivestimento.

Descrizione del progetto

L’ambiente

Il dispositivo è collocato in una zona ribassata rispetto alla sommità arginale, verso il fiume Po.

La soluzione tecnica relativa ai corsi dei morali in legno degradanti verso l’altro oltre a dare risposta ai problemi evidenziati in precedenza, ha una precisa intenzione simbolica: la messa in opera di una tensione e direzione verso l’alto/cielo.

Come base è stata impiegata una piastra in cemento armato che serviva da supporto ai vecchi cassonetti ormai in disuso, a motivo della raccolta differenziata dei rifiuti porta a porta. Recuperata nei pressi di uno scolo adiacente l’area cimiteriale, è stata posata capovolta rispetto al suo normale utilizzo e, con una dimensione di centoquaranta per duecento centimetri, ha determinato la dimensione in pianta della microarchitettura.

Posizionamento base in C.A Riempimento con stabilizzato

A questa base, è stato aggiunto, a sbalzo, un piccolo corpo di profondità 80 cm. Questa estroflessione si configura come un esonartece-soglia aperta sul lato sud, invito a entrare per chi percorre l’argine: a piedi, in bici o in auto.

Microarchitettura lato sud (foto Francesca Iovene, courtesy A. Bellini)

L’orientamento, stabilito secondo il Nord Geografico, mette idealmente in relazione, lungo l’asse nord-sud, i due campanili e le “due comunità prima più vicine grazie al vecchio ponte in ferro di recente demolito”.

Vista microarchitettura dalla golena  (foto Francesca Iovene, courtesy A. Bellini)

Superato il varco d’accesso ed entrando nel piccolo nartece, l’interruzione di una tavola del rivestimento determina una doppia fessura: da questa è possibile scorgere il fiume e, al di là di esso, il campanile della vicina comunità di Bottrighe. Il nartece, in quanto soglia/transizione, presenta assi verniciate con mordente nero, come l’esterno. Nella cella vera e propria, orientata ad est, il legno non verniciato, in tinta naturale, muta l’esperienza percettiva di colui che vi accede.

Interni, e viste verso il fiume e (sotto) verso il cielo  (foto Francesca Iovene, courtesy A. Bellini)

Due tagli, a nord e a est, inquadrano il fiume e un filare di pioppi: questi sono due elementi tipici del paesaggio. Le fessure sono posizionate a un’altezza tale affinché vi si possa guardare attraverso solo assumendo una postura accovacciata o seduta o inginocchiata. Un’apertura sommitale permette alla luce di penetrare nella stanza; questo fa sì che spazio e tempo si coniughino generando una percezione del piccolo ambiente che muta col passare delle ore del giorno e lungo l’arco delle stagioni.

taglio del nastro e conclusioni

A chiudere questa esperienza, durante la mattinata di sabato 15 Settembre, si è tenuta una conferenza al termine della quale gli studenti di fotografia hanno presentato le loro cinque Visions Intérieurs e a seguire gli studenti di architettura hanno presentato agli architetti e alla comunità il lavoro svolto durante il laboratorio. Al termine della conferenza ci si è diretti all’area di progetto dove la microarchitettura è stata inaugurata alla presenza del sindaco Michele Domeneghetti che in questi anni ha creduto molto nell’iniziativa e che ci dice:

Inaugurazione – taglio del nastro. Foto di gruppo

“Come ogni gesto che sia rivolto ad un singolo o ad una collettività contiene in se un simbolo, anche una semplice inaugurazione ha la dignità di una “liturgia”. In questo rito sta il passaggio di consegna, dalle mani dell’ideatore/costruttore alla collettività che la dovrà usare, accettare, capire, possibilmente condividerne il senso. L’inaugurazione è anche il simbolo dell’accettazione della comunità che riconosce l’opera creata.

Per quanto laico è di fatto un “battesimo”, l’inizio di una vita, la messa in esercizio, uno spartiacque tra la gestazione ed il finito. Il taglio del nastro, un punto di non ritorno, una condizione decretata che deve essere meditata, sicura in quanto irreversibile.

Il dono del lembo del nastro è la prova di un evento accaduto, la concretezza di un passaggio che diventa tangibile, ricorda e ammonisce che l’opera è soprattutto dei singoli appartenenti alla comunità e ad essi è chiesta cura e responsabilità nell’utilizzo.

Il farlo con il nastro tricolore rafforza ed identifica una identità, rimanda al senso di appartenenza ad un simbolo di patria, ad una comunità che si riconosce in ideali e valori comuni ed inviolabili.”

 

Il workshop in questi anni è stato anche un’occasione d’incontro e di opportunità per creare legami e rapporti capaci di continuare nel tempo. Si pensa già a un possibile ritorno, così come è avvenuto dopo l’edizione #03 a cui ha fatto seguito l’azione spontanea dal nome canPO #takecare. In quella circostanza unitamente ad associazioni locali, comunità e partecipanti delle passate edizioni non si è costruito qualcosa di nuovo ma si è tornati a prenderci cura di quanto lasciato. L’auspicio è anche quello di avere a possibilità di operare in altri punti, anche in altri luoghi, le possibilità sono tante, se sei interessato all’iniziativa, hai proposte o volessi semplicemente contattarci puoi scrivere a canpo.workshop@gmail.com.

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