“Nativitas. I colori della gioia”. Tra immagine e parola, un percorso nell’arte alla luce della fede: dalle antiche icone alla contemporaneità
Questo l’argomento della meditazione che svolge suor Maria Gloria Riva sabato 13 dicembre 2025, alle ore 21,nella chiesa di Santa Maria alla Fontana (piazza Santa Maria alla Fontana, Milano), con ingresso libero.
Nell’estendere ai lettori l’invito di Giovanni Gazzaneo, presidente di Fondazione Crocevia che ha organizzato l’incontro, riportiamo qui sotto uno scritto di sr Gloria su questo tema.
(Per informazioni: www.adoratrici.it gloria.corim@icloud.com www.fondazionecrocevia.it www.fontanasacrovolto.it )
Natale nell’arte
a cura di sr Maria Gloria Riva
Introduzione alle opere
Se il Kerigma, passione, morte e risurrezione di Gesù, è stato il primo annuncio del fatto cristiano, il Natale è stato, nella coscienza del popolo cristiano, il sigillo del Mistero dell’Incarnazione. L’arte ha accompagnato lungo i secoli non solo l’evolversi della fede del popolo di Dio ma anche le sfide e le preoccupazioni che, a motivo della fede, la Chiesa si è trovata a dover affrontare. Così, nei primi secoli, la difesa della Verginità di Maria e della vera umanità del Cristo erano una priorità nella predicazione e nella catechesi, quindi gli artisti li esprimevano teologicamente attraverso i simboli e le immagini. L’uscita della Chiesa dalle catacombe e la possibilità per i cristiani di accedere anche ad alte cariche all’interno dell’Impero è registrata puntualmente nell’arte che vuole il Cristo e la sua beata Madre in vesti imperiali. Così, nascita dei comuni e interesse per la polis hanno influenzato gli artisti cristiani, i quali hanno desiderato far rivivere il Mistero del Natale ambientandolo nella loro quotidianità. Successivamente il dramma delle lotte fra Stati cristiani e la dolorosa questione della controriforma hanno spinto a rimettere al centro il segno della croce, contemplato fin dal momento della nascita del Redentore. Nemmeno gli artisti del 900 o i nostri contemporanei hanno potuto fare di confrontarsi con il Mistero del Verbo Incarnato. Lo scandalo della Verginità di Maria e di un Dio che si fa uomo, provoca anche nell’uomo laico, quello intellettualmente onesto, il grido della domanda se non quello della fede. Insomma guardare a come l’arte ha espresso il Natale, o altri punti cardine del Mistero di Cristo, rende evidente che mai la Chiesa è stata lontano dalla vita degli uomini. Anzi nei momenti in cui ha espresso con vigore se stessa, senza scendere a patti con facili accomodamenti o con mode passeggere, è stata un punto di forza per tutti, anche per i lontani.
Per gli artisti paleocristiani Cristo nasce in un sarcofago, avvolto da fasce come dalle bende della sepoltura. La mangiatoia preannuncia il sepolcro dove la carne si fa pane, cosicché carne, sepolcro e altare, cioè verità storica e verità salvifica (il sacramento) si unificano. La Vergine Madre resta in disparte: benché scelta dall’eternità, guarda a Cristo attraverso il segno offerto a tutti i popoli: la stella cometa. Porta la mano alla bocca interrogandosi: «come è possibile, non conosco uomo?», ma anche adorando: ad os, portare la mano alla bocca e baciare. Dall’altro lato, più vicino al Cristo è l’asino, simbolo dei pagani e non il bue peraltro quasi scomparso. Un popolo escluso dalla salvezza, oppresso dalla soma del peccato, viene liberato da un’apertura senza precedenti: la carne è abitata per sempre, finalmente, da uno spirito eterno.
I pastori che ricevettero l’annuncio degli angeli erano gli am ha’arez, ovvero i popoli della terra, un termine leggermente dispregiativo per definire persone condannate dal loro lavoro a restare ai margini. La condanna non era tanto legata all’essere pastore: Davide era pastore prima di diventare re di Giuda; Dio stesso è definito pastore di Israele; Gesù si è autodefinito il Buon Pastore. Quello che rendeva esclusi i pastori cui è diretto l’annuncio degli angeli è il fatto di avere nel gregge pecore nere, ossia pecore ritenute impure dagli ebrei. Chi possedeva pecore nere non poteva introdurre il gregge nei centri abitati o nelle immediate periferie e doveva restare fuori all’aperto. Da questa antica legge deriva, del resto, nel parlato comune, l’espressione “essere la pecora nera”. Tale espressione viene normalmente usata nel senso dell’«essere diversi», ma in realtà il significato originario indica l’essere impuri.
Fu proprio a causa del loro pernotto in aperta campagna, che quei pastori emarginati meritarono d’essere i primi destinatari della buona notizia del Vangelo. Fino al XIII secolo il fatto doveva essere ben noto poiché l’arte lo registra con precisione. Vediamo ad esempio nella Natività di Duccio da Buoninsegna comparire tra il gregge diverse pecore nere. I pastori dunque, erano esclusi non per una questione di razza o di religione e nemmeno per il loro lavoro in sé, ma per una condizione di impurità cui il loro lavoro li costringeva. Si può suppore, a ragione, che, se avessero potuto (economicamente), quei pastori avrebbero rinunciato alle loro pecore nere e avrebbero abitato con gli altri. Essi dunque avevano un grande desiderio di appartenere al popolo di Dio ma la loro condizione sociale lavorativa lo impediva. Quindi ecco il motivo aggiunto della “grande gioia” di cui sono investiti. Essi ora potevano, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa, essere protagonisti della fede diventando depositari dell’avvento del Messia. I pastori di Duccio, poi sono due, uno anziano e uno giovane, possiamo scorgere in essi il popolo dell’Antico e del Nuovo Testamento. La gioia del Vangelo è per chi attende, chi desidera il Salvatore promesso dalle Scritture. Assimilato alla gioia dei pastori nell’opera di Duccio c’è Giuseppe, è lui infatti a vestire il rosa che è il colore assegnato proprio alla III domenica d’Avvento. Il viola infatti solo con molto bianco (ossia con molta luce) e un pizzico di rosso (ovvero l’amore e la passione del Salvatore) può diventare rosa.
In una adorazione dei Magi di Giotto, poco nota, la stella ha lasciato il cielo dorato, dove si vede ancora l’impronta, per adagiarsi sul tetto della mangiatoria di Betlemme. Un re già rende omaggio al Cristo mentre la sua corona sta davanti a un agnello. Il suo dono è forse la mirra e rende maggio a colui che come Agnello mansueto offrirà sé stesso in sacrificio per noi. Come in molte natività compare l’agnello sacrificale così, la liturgia, nell’epifania prevede il proclama della Pasqua, perché in queste prime epifanie del Verbo già si annuncia la teofania ultima e definitiva: quella del Cristo sacrificato e glorioso. L’avvento di San Francesco e il presepe di Greccio voluto dal Santo nel 1223, i pastori, infatti, vestono il saio francescano e sono del tutto assimilati ai confratelli del poverello di Assisi, del quale Giotto fu il grande interprete dal punto di vista artistico e pittorico.
Lo straordinario dipinto di Lorenzo Lotto (Venezia 1480 circa – Loreto 1556/57) raffigura l’interno della capanna di Betlemme. La Vergine, San Giuseppe, due pastori e due angeli circondano adoranti Gesù Bambino, adagiato in una culla e intento a giocare con il muso di un agnello portato in dono dai pastori e simbolo del Sacrificio pasquale.
La scena è di grande intensità emotiva: tutti gli sguardi appaiono puntati su Gesù, ad eccezione di quello di un angelo che, invece, si rivolge agli spettatori, esortandoli alla devozione. Dal fondo buio della capanna, attraverso le aperture della porta e di una finestrella, si scorge una luce crepuscolare, che avvolge tutta la scena, evidenziando dettagli architettonici e sottolineando morbidi passaggi chiaroscurali e raffinatissimi effetti di ombre.
L’asno e il bue sono in controluce, mentre sono illuminati dal Cristo stesso i personaggi attorno al Bambino. Se la finestrella a destra mostra chiaramente il segno della croce, cui il cRisto andà incontro, il Bambino si trastulla con l’agnello, segno dell’agnello sacrificale di Pasqua che verrà presto sostituito dalla suo Corpo dato per la salvezza del mondo.
L’opera venne eseguita durante il secondo soggiorno veneziano del pittore (1525-1533), analogamente ad altre opere come la Madonna col Bambino e i Santi Caterina e Tommaso del Kunsthistorisches Museum di Vienna o l’Annunciazione di Recanati, rispetto alla quali si notano evidenti analogie per quanto riguarda il dinamismo compositivo e l’uso espressivo e poetico della luce.
Il formato e le dimensioni (145,5×164 cm) suggeriscono che la tela fosse destinata alla parete di un palazzo privato. E’ peraltro molto probabile che i volti dei due pastori siano i ritratti dei committenti, verosimilmente due fratelli, come suggerisce il loro particolare abbigliamento. Infatti, sotto le giubbe da pastori, aperte sul petto, si scorgono abiti eleganti che rivelano una condizione sociale decisamente più elevata.
Una sorta di Dittico: un dialogo spirituale e profondo fra Nazaret e Betlemme ce lo regala James Tissot.
Jacques Joseph Tissot, francese, ma col nome d’arte anglicizzato in James Tissot, visse un’esperienza mistica entro la chiesa di Saint-Sulpice a Parigi. Da lì iniziò a mettere la sua arte al servizio di Cristo, studiando a fondo la Sacra Scrittura e visitando ripetutamente la Terra Santa. Alla fine dell’Ottocento Nazareth e Betlemme conservavano, ancora meglio di oggi, colori e architetture che riportavano immediatamente ai luoghi dove visse il Cristo. Così egli riproduce la casa di Maria con la minuzia di un testimone oculare.
Così è una lampada di luce Maria, dentro la modesta casa di Nazareth con i tappeti orientali e i muri di esili canne. Avvolta nelle sue vesti verginali Maria è visitata dall’Arcangelo Gabriele nell’ora zero della storia della salvezza: l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. (Lc 1, 26-27) Ed è tutta qui la carta d’identità della nuova Eva, scritta entro cinque lettere scarne, quelle di un nome che attraversa l’intera storia della Salvezza: Miriam. Mar–yam, ovvero Signora del Mare, dunque principessa, ma anche Signora nella capacità di sopportare le amarezze della vita. «Chiamatemi Mara», protestava Noemi, antenata del re Davide, tornando in patria con la nuora moabita, Ruth, il cui nome, che significa Compagna, addolcì il dolore della suocera. In un nome il destino di questa piccola Mara, chiamata ad essere Ruth, compagna di ogni uomo che soffre, perché scelta ad essere compagna dell’Uomo dei dolori per eccellenza, compartecipe della Redenzione del mondo con il suo piccolo sì. Gesù, l’atteso consolatore, ora è qui.
Così, dal nome umano di Mar–yam, scaturisce il saluto angelico con il suo Nome nuovo e vero: Gratia plena. Piena di grazia, sì, piena di luce. Le labbra socchiuse dell’Arcangelo hanno appena pronunciato il vero nome ed ella si piega a guardare il suo ventre, teatro di un mistero eterno di oscurità e di luce; la stessa oscurità che squarcia il soffitto, la stessa luce dei raggi angelici. Gabriele è dipinto da Tissot seguendo la lezione di Isaia, visibili il volto e le mani, ma il corpo coperto da sei ali: due per volare; due per coprire le braccia e due per coprire i piedi. Ma a ben vedere la postura dell’angelo riprende quella del Cristo sulla croce. Siamo all’origine della Redenzione ma già, alla piccola fanciulla di Nazaret, è indicata la Via. Il letto sopra il quale riposa la vergine è scarlatto come il dolore che avrà da sopportare, ma il suo abito dopo la visita dell’angelo acceca per lo splendore. Una luce che, riflessa nei drappeggi li rende davvero simili alle onde del Mare. Ecco la Stella Maris che accompagnerà ogni uomo nel suo navigare terreno! Consolazione e misericordia divina stampata nella carne di una donna, alla quale volgere lo sguardo, come ebbe a dire il grande san Bernardo: tu che nell’instabilità continua della vita presente t’accorgi di essere sballottato tra le tempeste senza punto sicuro dove appoggiarti, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella: guarda la stella, invoca Maria!
Con la precisione del cronachista, la narrazione pittorica di James Tissot ci regala l’immagine di una delle grotte delle montagne attorno a Betlemme. Maria e Giuseppe non trovarono posto nell’albergo e si rifugiarono qui, nel luogo dove i pastori, lontano dall’abitato, custodivano gli animali. La Madonna ha il medesimo abito dell’annunciazione, ma qui la luce ha abbassato i suoi toni: è un altro a risplendere. Il rosso del talamo si è condensato nel drappo che accoglie il Nascituro per rendere ragione del fatto che Lui solo è nato per morire. Le braccine, apparentemente festose, del piccolo Gesù, già annunciano il suo destino di croce. Maria è tutta raccolta nella contemplazione del Mistero. Il bue, in primo piano, simbolo di Israele scalda l’ambiente con il suo fiato, mentre l’asino sembra socchiudere gli occhi, abbagliato da tanta luce. Il fiato: segno di un popolo che ha risposto alla voce di Dio con il canto e la preghiera; gli occhi: simbolo di quei pagani che pur non avendo conosciuto le Scritture ora meritano di vedere il Verbo fatto carne. Tutta la luce dell’antro buio proviene dal divino Infante, mentre le scale, sulla destra, manifestano la profondità della caverna attestano la Kenosi del Verbo. Giuseppe non c’è. Come vuole un’antica tradizione egli non assistette al parto che avvenne in una meravigliosa estasi di luce. Al santo Patriarca basteranno le parole dell’Angelo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo (Mt 1,20) e quelle arcane della profezia: E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele (Mi, 5,1). A lui, ormai, povero discendente del re Davide, toccherà il titolo regale di Custode del Redentore e imparerà che il vero dominatore del mondo ha scelto come talamo una greppia e come trono il legno di una croce.









































