di Leonardo Servadio
Il problema qualche secolo fa non si sarebbe posto. Ma oggi è raro trovare chiese la cui navata non si presenti un poco come una sala per spettacoli: con poderose file di panche allineate, ben ingombranti, pesanti. Una presenza che tende a fissare uno spazio che di per sé sarebbe dinamico: proteso verso l’altare e oltre questo nella duplice tensione orizzontale e verticale.
Ma le panche lo bloccano: esprimono staticità, in ragione delle loro cospicue dimensioni e del loro evidente peso. Rappresentano la comunità anche quando essa non è presente? Certo identificano con evidenza i posti che i fedeli occuperanno nelle celebrazioni, ma la comunità non può ragionevolmente sentirsi rappresentata dal mobile su cui si siede. Si sentirà semmai rappresentata dal complesso dell’elaborazione dello spazio, dall’altare attorno al quale si raccoglie, dalle opere d’arte che esprimono bellezza nell’ambiente per la liturgia.
La panca stabilisce qualcos’altro — una specie di possesso: “il mio posto”. Non mancano panche con inscritti i nomi di famiglie che godevano di un particolare diritto di occuparlo; oppure targhe che ricordano le elargizioni di una certa persona.
Eppure la chiesa dovrebbe essere lontana da tutto questo: evocare, suggerire una tensione spirituale.
Non c’è qualcosa di più dinamico, e anche di più nobile, in una navata priva di panche? Non si ravvisa nella ricchezza di ornamentazioni che scandiscono le pavimentazioni delle antiche basiliche, un’usanza ben diversa? Se la chiesa è chiamata a essere “in cammino” o “in uscita”,non sarebbe più appropriato che gli spazi interni delle chiese non fossero fermati da batterie ordinate di panche, e che si usassero piuttosto pochi sedili per chi per età o condizioni fisiche non può farne a meno, e che siano leggeri e facilmente asportabili?
Se si cerca online è più facile trovare chiese ortodosse prive di panche.
Chiesa del monastero ortodosso russo Sergei Posad.
Libero dalle panche, lo spazio diviene più accogliente per le persone. La loro presenza si fa più rilevante. La chiesa vuota appare in attesa. La chiesa con le persone diviene essa stessa comunità: casa della comunità.
L’assenza di panche dà protagonismo alle persone: sono esse chiesa, prima e più dell’edificio, che resta quale ambiente che si offre alle persone riunite con la sua carica di significati, espressi nell’articolazione dello spazio e negli ornamenti. Nello spazio senza panche è l’azione che acquista rilevanza: i movimenti, i gesti. Se l’architettura rimane nella sua staticità, l’azione liturgica la riempie della sua attualità, e ogni gesto acquisisce maggiore rilevanza, anche il più piccolo, come accendere una candela.
E anche ove lo spazio architettonico sia ridotto nella sua vuota essenzialità, come si vede in questa chiesa irachena da poco recuperata dopo la cacciata dello Stato Islamico (ISIS o Daesh), si apprezza come chiesa sia l’insieme dei fedeli riuniti prima ancora che l’architettura che li circonda.
E nello spazio della navata libera da panche si evidenzia la complessità dell’ambiente nella sua interezza. Risalta la pavimentazione, che nelle chiese completa l’apparato espressivo dell’insieme.
Al contrario, se si distribuiscono panche su pavimentazioni antiche e ornate in genere da motivi geometrici che richiamano gli elementi architettonici circostanti, l’insieme ne resta deturpato. Lo si vede in praticamente tutte le chiese storiche, particolarmente in Italia, dove le pavimentazioni sono scandite da tarsie marmoree policrome che disegnano tondi, girali, corone, tappeti che ritmano lo spazio insieme col coro delle colonne e la fuga delle volte. Queste pavimentazioni storiche sono dotate di forte significato e contribuiscono a esaltare l’impatto prospettico dell’altare quale centro dinamico del luogo.
Se si aggiungono panche nella navata di una chiesa storica, la carica espressiva dei suoi colonnati e dei suoi archi resta bloccata, come se ne venisse negato il dinamismo.
Lo si nota per esempio nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano, una delle quattro la cui origine risale al IV secolo (l’architettura attuale è del IX-X secolo) e furono erette per volontà del vescovo tedesco che dà nome alla Diocesi. L’ambiente romanico, con la pacata austerità delle sue partizioni appare invaso come da un meccanico, mercenario mutismo. Non era tale quando il Giusti a metà ‘800 la trovò piena “di quei soldati settentrionali… messi qui nella vigna a far da pali”. E di fatto dice il Giusti, “se ne stavano impalati”, non seduti ma “dritti come fusi”. E così l’ambiente e la celebrazione liberano un afflato che supera le divisioni tra truppe occupanti austriache e italiani desiderosi di riscatto: da quelle “trombe di guerra uscian le note come di voce che si raccomanda, d’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti…”. Il coro verdiano de “I lombardi alla prima crociata” cantato dai soldati austriaci commuove il patriota italiano che qui in Sant’Ambrogio trovò una ragione per la quale quelli che erano nemici divennero ai suoi occhi “gente della nostra gente”.
Curioso notare come invece oggi le batterie di panche che occupano Sant’Ambrogio appaiano come occupanti totalmente estranei all’ambiente, e sembrino spogliarlo più che rivestirlo.
E quando poi i fedeli si riuniscono sulle panche, ecco comporsi l’immagine di un pubblico che attende a uno spettacolo. Da parte dei liturgisti si parla e si ragiona tanto della collocazione dell’altare e sui gesti del presidente della celebrazione eucaristica e su come i fedeli possano e debbano partecipare: la domanda è se non sia necessario anzitutto liberare le chiese dalle schiere di panche che tanto incidono sul comportamento delle assemblee.
Vi sono momenti in cui la partecipazione avviene attraverso l’ascolto. Ma si tratta sempre di partecipazione e l’atteggiamento corporale resta significativo. Tra una persona che parla in piedi e un gruppo che l’ascolta comodamente seduto si stabilisce una distanza. Che non ci sarebbe, se non ci fossero le panche.
Eppure tale è la rilevanza delle panche nelle chiese ai nostri giorni, che quasi queste sembrano assumere un ruolo “liturgico”, quasi che sostituissero un’assemblea ridotta a un fantasma di quel che era o che potrebbe essere. Come se in un armadio, invece degli abiti appesi trovassimo solo gli attaccapanni, le chiese, anche quelle contemporanee (e pertanto concepite anche per ospitare le panche), anche quelle meglio riuscite sul piano architettonico come quella di Riola di Vergato (l’ultima opera di Alvar Aalto), più sono riempite da panche, più sembrano non aver bisogno di persone.
Forse che per tornare a riempire le chiese di fedeli non sia il tempo di pensare a svuotarle delle panche?
Il suo testo mi piace molto, tocca un tema poco studiato ma importante. Molto in breve lei solleva il problema di come, in concreto, l’assemblea nel suo complesso (nel presbiterio e nella navata, preti e laici) celebra sia nella dimensione dinamica sia nella dimensione statica. A questo proposito mi sembra necessario precisare che la dimensione dinamica della celebrazione non può escludere la dimensione statica, quella che caratterizza l’ascolto e la preghiera. Le panche, che nelle chiese italiane sono diventate protagoniste nelle chiese solo nella seconda metà del secolo scorso, esprimono un atteggiamento di accoglienza e favoriscono quel riposo di tutta l’assemblea celebrante, non solo del clero, che è richiesta durante la liturgia della Parola. Tenga conto, infatti, che le panche sono diventate importanti da quando la liturgia è diventata celebrazione partecipata e la liturgia della Parola nella nostra lingua ha conosciuto lo sviluppo attuale. Perciò il banco ricorda il luogo dell’insegnamento e dello studio, la scuola. Le panche conformano la chiesa a scuola della Parola dove tutti, proprio tutti trovano posto. Dal mio punto di vista il problema sta nel mettere in equilibrio le due dimensioni. Infatti, convengo con lei che effettivamente in molte chiese le panche occupano troppo spazio, sono troppo voluminose e ingombranti; non sempre sono di livello idoneo dal punto di vista della materia e del design; spesso finiscono per caratterizzare le chiese in modo mediocre e unilaterale. Inoltre, nelle chiese conformate a teatro, quelle di Mario Botta ad esempio, nelle quali il presbiterio viene pensato come palcoscenico e l’azione liturgica è limitata allo spazio del presbiterio, le panche possono far pensare al teatro. Ma questo è solo un primo aspetto del problema. C’è da prendere in considerazione il profilo storico. Credo che questo tema sia stato posto dalle chiese riformate, nelle quali il culto della Parola ha assunto un ruolo primario quando non esclusivo. In terzo luogo ci sarebbe da considerare il problema anche sotto il profilo geografico/culturale. Nelle chiese del centro e nord Europa, ad esempio il problema si pone da molto tempo e in forme diverse rispetto ai paesi latini. Ma passiamo a un altro continente; in molte chiese africane le piccole panche non impediscono affatto all’assemblea di apparire e di muoversi con molta libertà; e gli spazi per la danza liturgica non mancano. E in Asia che cosa succede? Da questi scarni cenni potrà intuire che il tema mi sembra davvero molto interessante e merita di essere studiato/analizzato/documentato dal punto di vista storico e geografico oltre che dal punto di vista celebrativo e culturale. Il confronto limitato con le chiese ortodosse, a mio modo di vedere, non rende ragione del problema.
Don Giancarlo Santi
e’ un tema importante sul quale occorerebbe aprire una seria discussione. Al pari dell’altare, dell’ambone, la collocazione e/o l’esistenza delle panche condizione l’intero percorso liturgico, non di meno l’aspetto architettonico della chiesa, i suoi percorsi interni. sarebbe interessante vedere ad esempio cosa succede nelle grandi cattedrali se eliminiamo le sedute. E’ di sicuro un tema affascinante e complesso