di David Palterer*

Benché architetto, non ho mai costruito una chiesa, né progettato una moschea e neppure una sinagoga, anche se mi sarebbe piaciuto tanto cimentarmi sul tema dei luoghi di culto, argomento che trovo fondante.

La tradizione ebraica apparentemente nega la necessità di disporre di un luogo per la preghiera in quanto dieci persone, dieci uomini, che si riuniscono assieme già costituiscono una “sinagoga”. Non è lo ‘spazio’ dunque ma una comunità (Kehila) di persone che costituisce il luogo di preghiera. Terminerò infatti questo mio intervento parlando di un luogo, il più ambito dagli ebrei per la preghiera, il Muro del Pianto o occidentale, nella città vecchia di Gerusalemme che, appunto, non è una sinagoga.

Un paradosso che subito va rilevato è che fino alla distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme (che per tradizione è stato abbattuto nella stessa data del primo, il nono giorno dell’undicesimo mese del calendario ebraico, il mese di Av), l’assoluta centralità del “culto” era riservata ed esercitata in quel luogo. La percezione della ‘presenza’ del Tempio non è venuta mai a mancare neanche dopo il suo disfacimento, in quanto ‘l’assenza’ è stata colmata dai ‘saggi’ dell’epoca, trasfigurandolo in un’entità vivente: in una realtà che oggi definiremo virtuale, diversa. Essi hanno riconfigurato un luogo – un spazio fisico – in un concetto espressivo della peculiarità culturale ebraica: a conseguenza di ciò, quel che si svolgeva nel Tempio, in quell’unico luogo, è diventato praticabile ovunque, e il rito sacrificale, sublimato nella preghiera e nello studio – nella sua astrazione, o forse proprio grazie alla sua astrazione – ha conservato in maniera palpabile il suo ruolo rituale e identitario per il popolo. Questo è avvenuto conciliando il presente e affidando a un  auspicato futuro ‘una restaurazione’ del tempio stesso. E questo è un concetto ancora più sublime del precedente, che ha consentito di mantenere vive tutte le aspettative e tutte le speranze!

Foto1 Sinagoga di Ostia Antica risalente alla seconda metà del primo secolo d.C.

In Italia, la più antica sinagoga conosciuta, è quella di Ostia Antica, risalente alla seconda metà del primo secolo d.C. [Foto1]. Rinvenuta nel 1961, durante la costruzione dell’autostrada per l’aeroporto di Fiumicino, questa sinagoga ha una forma basilicale, simile a quella di Baram in Galilea (mi riferisco a questa, ma a oggi ne sono state portate alla luce più di cento, di quel periodo, prevalentemente al nord del paese) [Foto2].

Foto 2 Sinagoga di Baram, Galilea, a cavallo fra il secondo e terzo secolo d.C.

Grazie al buono stato di conservazione possiamo conoscere alcune specificità di quelle antiche sinagoghe: sono indirizzate verso Gerusalemme, e ancora non è univoca la posizione dell’Aron, l’arca, il luogo dove si custodiscono i rotoli della Torah. I pavimenti musivi con iscrizioni, ornati con simboli ebraici che sono presenti in molte sinagoghe di quell’epoca, qui non si sono ritrovati.

Foto 3. “Distruzione del Tempio di Gerusalemme”, Francesco Hayez (Olio su tela, 282 x 183 cm, Venezia, Gallerie dell’Accademia 1867).

Con la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio [Foto3] per mano dell’esercito di Tito nel 70 d.C., la Sinagoga, come abbiamo visto, esisteva già, e aveva attraversato un periodo di ridefinizione del proprio ruolo nella comunità, ottenendo un assestamento che in più risentiva del fenomeno del cristianesimo che si era distaccato dal suo seno, assumendo consistenza e identità proprie.

Foto 4 Il monte Moria secondo la visione di Jan Bautista Villalpando del 1604, ripreso da Caramuel nel 1678 e da Fischer von Erlach 1721.

L’immagine architettonica del Tempio, oltre la descrizione biblica, si è persa, e dopo un intervallo di tempo piuttosto lungo si è ricomposta con un immaginario il più delle volte di fantasia [Foto 4] o di idealizzazione, partendo dalla descrizione dei testi sacri. Questo fenomeno inizialmente è cresciuto più in ambito cristiano.  Il gesuita Juan Bautista Villalpando è stato tra i primi a tentare l’interpolazione visiva dai testi sacri, di Gerusalemme e del Tempio pubblicando, nel 1596, il volume Ezechielem Explanationes, seguito poi da Juan Cramuel Lobkovitz e Fisher Von Erlach. Tutti partivano dalla descrizione “letteraria”, spinti dall’idea che il Tempio fosse stato un esempio di assoluta bellezza architettonica che erano intenzionati a decodificare. Villalpando tenta di ordinare le numerose misure delle scritture in un trattato matematico, e queste ‘nuove immagini’ hanno cominciato a diffondersi ottenendo una considerevole fortuna, che ha raggiunto anche l’ambito ebraico. Tra i personaggi di maggior rilievo vi è il Rabbino Jacob Jehudah Leon, soprannominato ‘Templo’, proprio per la sua dedizione allo studio del Tempio e per il mitico plastico del monumento che aveva realizzato e che portava con sé durante i suoi viaggi (memorabile quello che nel 1675 lo condusse da Carlo II d’Inghilterra). Le sue numerose pubblicazioni [Foto5] hanno perfino influenzato le tipologie delle sinagoghe dell’epoca.

Tempio di Salomone, Jacob Jehudah Leon 1665.

Una fonte ‘ludica’, in quanto ha avuto presa sul radicamento di un immaginario alternativo del Tempio, è stata quella dei viaggiatori che al loro ritorno dalla Terra Santa riportavano notizie e immagini, tra queste quelle della Cupola della Roccia, che risale al 687 d.C., mescolando il vero e la fantasia: un bell’esempio appare nella Haggadah di Pasqua, stampata a Venezia nel 1609 [Foto6].

Foto 6. Haggadah di Pasqua, stampata a Venezia nel 1609.

L’immagine seguente, alquanto suggestiva [Foto 7a] illustra uno scavo che pare di un sito archeologico ma di fatto è di lavori avviati di recente, nella periferia di Tel Aviv, in località Bnei Brak: una sinagoga contemporanea che però riprende il nome di un insediamento che sorgeva vicino, nel periodo del secondo Tempio.

Foto 7 a) Sinagoga di ‘Tiferet Zvi’ conosciuta come Itzkovitz a Benei Brak, Tel Aviv.  Lavori per l’ampliamento, scavi sotto il fabbricato. Foto 7 b) (sotto) L’esterno anonimo.

La maggioranza dei duecentomila abitanti della moderna città appartengono a una comunità religiosa ortodossa. Lo scavo che qui mostro è quello dei lavori eseguiti sotto un edificio [Foto 7b] privo di qualsiasi connotazione: una condizione che è condivisa da diverse sinagoghe, frequentate nelle 24 ore di apertura giornaliere da oltre 17.000 persone. Questo straordinario afflusso ha reso necessario l’ampliamento del complesso, cose che non poteva che avvenire se non ricavando nuovi spazi sotto il fabbricato (e si è cercato di eseguire il tutto senza intralciare l’abitudine dei fedeli).

Foto 7 c.: tipica residenza dei nuovi immigrati in Palestina degli anni ‘40.

La storia di questa singolare costruzione iniziò negli anni ’40, come residenza, secondo una tipologia insediativa [Foto 7c] sviluppata per accogliere i nuovi immigrati nella Palestina (allora sotto mandato britannico). Per beneficiare di una legge inglese che concedeva la chiusura al traffico veicolare nelle festività ebraiche comandate, e quindi anche il sabato, dei tratti di strade sui quali gravitava una sinagoga, la famiglia che abitava la casa, per usufruire della norma, destinò il proprio soggiorno alla preghiera comunitaria. L’abitudine si radicò al punto che i proprietari finirono col ritirarsi nell’annessa stalla, dove vissero il resto della propria vita, lasciando scritto nel loro testamento che la proprietà doveva essere destinata al culto. La crescita di questo agglomerato, avvenuta nel tempo in modo spontaneo, ha mantenuto i tratti del contesto residenziale circostante, più di quelli assimilabili a qualsiasi tipologia sinagogale.

La presenza di sinagoghe nascoste nel tessuto urbano è stato fenomeno comune anche in Italia, fino a quando non avvenne l’emancipazione degli ebrei (a metà ‘800), per un motivo sostanzialmente differente da quello illustrato prima: per una restrizione a loro imposta. Le comunità infatti erano rinchiuse nei ghetti, in ambiti riservati, esclusivamente riservati  a loro.

Foto 8b, Casale Monferrato. del 1595
Foto 8a Siena, 1786.

Attraverso tre sinagoghe italiane vorrei illustrare questa tipologia: le Batei Knesset (in ebraico Case di adunanza) di Siena [Foto 8a], di Casale Monferrato, [Foto 8b] e di Conegliano Veneto [Foto 8c], scelte per illustrare anche la loro differente evoluzione nel tempo.

Foto 8c, Conegliano Veneto, 1710.

Se quelle sinagoghe sono state private di visibilità nello spazio pubblico della città, i loro interni invece sono stati estremamente caratterizzati: lo spazio e gli arredi sono spesso ricchi di sfarzo, e sono stati stilisticamente interfacciati con la cultura dei luoghi nei quali sorgevano. Per il rapporto spesso ricercato degli ebrei con la società, è calzante la storia di una delle sinagoghe del ghetto di Firenze, commissionata dalla confraternita ‘Mattir Assurim’ a Bernardo Buontalenti, o qualcuno della sua cerchia [cfr Nachon, U., Aronot Kodesh e arredi rituali d’Italia in Israele, pp. 113-115] che aveva realizzato nel 1571, per volontà di Cosimo I de’Medici, il progetto del ghetto e che fu interpellato dalla comunità anche per progettare il suo luogo di culto.

Foto 9a) Interno della sinagoga di Siena.

Tornando alla sinagoga di Siena, che nel 1786 ha sostituito i luoghi di preghiera precedenti, [Foto9a], oggi quella sinagoga continua a svolgere le sue primarie funzioni, sebbene la locale Comunità sia ridotta a poche famiglie.

Foto 9 b) Interno della sinagoga di Casale Monferrato.

La sinagoga di Casale Monferrato è ben più antica, risale al 1595 [Foto 9b] e preserva il suo straordinario splendore barocco. Ma, più che luogo di culto, oggi funge da museo, testimonianza di una comunità importante che si è quasi totalmente dispersa in altri luoghi.

Foto 9c) Conegliano Veneto, dopo la traslazione a Gerusalemme.

A Conegliano Veneto [Foto 9c] invece, il fabbricato che ospitava la sinagoga resta come “nuda testimonianza” di una comunità ebraica che non c’è più, e il proprio “interno”, risalente al 1701 con una storia simile a quella di Siena, è stato smantellato e rimontato, in diverse fasi, a Gerusalemme (il completamento è avvenuto nel 1989). Riadattato in uno spazio preesistente all’interno di un fabbricato e fuori del suo contesto, è diventato l’elemento di maggiore spicco di un museo di arte ebraica italiana dedicato a Umberto Nachon, da questi fondato nel 1983 e situato negli ambienti limitrofi alla sinagoga. La peculiarità di quella sinagoga, oltre ad essere “oggetto in esposizione” in un percorso museale, è che nei sabati e nelle festività è vissuta da una piccola comunità locale, prevalentemente ‘italiana’ che risiede a Gerusalemme, come sinagoga di riferimento, mantenendo le propri tradizioni: un singolare caso di un museo ‘vivente’.

Nel Medioevo, fuori dall’Italia, sono rimaste testimonianze di sinagoghe, con tipologie tutt’altro che ‘assenti’ dal paesaggio urbano. Quelle che hanno superato le vicissitudini del tempo sono edifici ben presenti, centrali nei luoghi dove le comunità ebraiche abitavano. La più nota tra queste è quella di Praga, del 1270 [Foto10], che rappresenta una tipologia “a fortificazione” perché oltre che come luogo di adunanza, preghiera e studio, nasce per via della necessità di servire da rifugio in caso di necessità, in quanto le concessioni di residenza in quei luoghi spesso non garantivano agli ebrei l’immunità dalle persecuzioni.

Foto 10 a) Sinagoghe medievali, tipologia fortificata: Praga.
Foto 10 b) Sinagoga di Cracovia.

In Polonia, la più significativa sinagoga fortificata è a Cracovia che, dopo la Shoah che l’ha risparmiata, è stata convertita in un museo. Geograficamente Cracovia sorgeva non distante dal confine occidentale di un esteso territorio polacco e in parte conteso dall’impero russo, conosciuto come “Zona di residenza” (Tkhum – Ha’moshav), dove una concessione di residenza permanente data agli ebrei ha portato a una notevole concentrazione in quel territorio. Molti villaggi della “Zona” diventarono di maggioranza ebraica e vi si è sviluppata a cavallo tra Sette e Ottocento una tradizione, derivata da quella del posto, di sinagoghe interamente costruite in legno, caratterizzate da una ricchissima decorazione popolare [Foto11], uno straordinario patrimonio che in gran parte non è sopravvissuto alla Shoah ma è stato arso insieme col suo popolo (solo recentemente lo stato polacco con alcune organizzazioni ebraiche hanno promosso la ricostruzione di tracce di quel passato, come la sinagoga di Dabrowa Tarnowska o, all’interno del museo ‘Polin’, del soffitto decorato della sinagoga di Gwoździec).

Foto 11, sinagoghe in legno: a) Zabłudowie.
Foto 11 b) Zabludow.
Foto 11 c) Gwoździec.
Foto 11 d) Gwoździec; il soffitto della sinagoga, come ricostruito nel 2016 all’interno del museo ‘Polin’ di Varsavia.

Nel 2017 ricorre il cinquecentesimo anniversario del primo ghetto istituito a Venezia. Non parlerò delle cinque, piuttosto note, sinagoghe, fondate molto vicine le une alle altre, ma del fatto che sono espressione di altrettante, diverse “comunità” di ebrei, denominate ‘Schole’, che corrispondono ai luoghi di provenienza degli ebrei nel ghetto. Sono ‘Cantone’, ‘Italiana’, ‘Levantina’, ‘Spagnola’ e ‘Tedesca’: esse divergono nei riti e soprattutto nell’organizzazione architettonica degli spazi, ma di questo parleremo più avanti.

Vorrei invece aprire una parentesi su Livorno che è tra le poche città italiane dove gli ebrei non furono confinanti in ghetti.

Foto 12. Sinagoga di Livorno: l’inizio della costruzione è del 1603.
Foto 12 b) Sinagoga di Livorno, facciata (del 1926).

Le due città portuali, Venezia e Livorno, sono state importanti crocevie di commercio e crogiolo di culture, simili a quello che fu Ostia Antica nel periodo della sinagoga prima ricordata. La comunità ebraica livornese fungeva da importante ponte tra Italia e il nord Africa. La sinagoga di Livorno venne eretta nel 1603, soli dieci anni dopo l’emanazione delle “Livornine”, e in fasi successive ampliata e arricchita. L’ultimo intervento, il rifacimento della facciata sud, terminata nel 1926, la caratterizzò per un fasto che oggi conosciamo solo da fotografie e disegni [Foto12] in quanto venne danneggiata da uno dei bombardamenti subiti dalla città durante il secondo conflitto mondiale.

A seguito di un lungo e concitato dibattito che ha coinvolto l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane è prevalso il pensiero di chi, come l’architetto Bruno Zevi, riteneva fosse meglio non recuperare lo storico monumento, preferendo invece ricorrere a una nuova costruzione, come simbolico gesto fondativo: espressione di rinascita della vita ebraica in Italia. La nuova costruzione, partita solo nel 1958, è stata affidata all’Architetto Angelo Di Castro che ha ritenuto opportuno far emergere l’espressività architettonica del momento, con una struttura in cemento armato che fa riferimento al linguaggio metaforico della tenda: un tema che troviamo anche in diverse chiese di quel periodo [Foto13].

Sinagoga nuova di Livorno, 1958, Architetto Angelo Di Castro.
Foto 13 b. Livorno, la sinagoga nuova in costruzione.
La nuova sinagoga di Livorno, anni ’90.

A Firenze, nel breve periodo in cui fu Capitale d’Italia, è stato concesso agli ebrei di erigere una sontuosa sinagoga, degna appunto di una capitale.

Foto 14 a) Sinagoga di Firenze, inizio costruzione 1874, inaugurazione 1882, Architetto Marco Treves.

Lo stile moresco [Foto14a] scelto è stato, in quel periodo, particolarmente apprezzato a Firenze (basterebbe citare l’estroverso Castello di Sammezzano [Foto14b] degli stessi anni).

Foto 14 b).

Questo stile comunque si trova ricorrente in molte sinagoghe della ‘emancipazione’, poiché attinge e associa l’immaginario della nuova stagione all’epoca d’oro della cultura ebraica in Spagna [Foto14c], che si protrae dal 711 fino la fine del Califfato di Cordova nel 1066: periodo nel quale la convivenza pacifica portò a una straordinaria fioritura culturale e religiosa. La nuova sinagoga di Firenze, e la sua cupola verde che svetta nel panorama tra i tetti rossi della città, cambia anche nella sua denominazione, viene infatti intitolata “Tempio Maggiore”, sostituendo il proprio ruolo e l’immaginario nella vita non solo cittadina e rinnovando le tradizioni della comunità.

Foto 14 c), Sinagoga di Cordova, 1314.

Il Tempio Maggiore di Firenze ha alcune connotazioni di una chiesa: un evidente tentativo di trovare elementi di condivisione con gli ‘edifici di riferimento religioso’ più diffusi in Italia, e nel contempo è anche chiaro l’intento di distinguersi, di ‘esternare’ una propria peculiarità. La scelta dello stile moresco rientra senz’altro in questo tentativo, ma ci sono altre puntualizzazioni, come la premura d’inseguire immaginari evocativi di Gerusalemme e del suo Tempio: interessante è infatti la riproduzione sul rivestimento lapideo, sul lato esterno dell’abside [Foto15a], di una delle porte antiche di Gerusalemme, quella posta sul lato est delle mura, conosciuta nella denominazione Sha’ar Ha’Rachamim – “porta della pietà” o della “Redenzione” [Foto15b], nella cultura cristiana chiamata “porta d’oro”, attraverso la quale Gesù è entrato in città. Sarebbe l’unica che introdurrebbe, ancora oggi, direttamente alla spianata del Tempio, se non fosse stata tamponata dal sedicesimo secolo: un ingresso di somma rilevanza almeno fino all’epoca dell’arrivo del Messia, come vuole la tradizione popolare  ebraica.

Foto 15 a) Esterno dell’abside del Tempio Maggiore di Firenze.
Foto 15 b), Porta della Redenzione, Gerusalemme, foto del 1895.

L’Aron Hakodesh, l’arca, è lo scrigno dove vengono custoditi i rotoli della Torah – il Pentateuco – occupa l’interno dell’abside e si presenta come una edicola [Foto16a]. L’abside dunque non è un ‘vuoto’, né un mobile’: è un’architettura all’interno di un’altra, il che esprime un concetto ricorrente nel mondo cristiano, in riferimento al Santo Sepolcro a Gerusalemme, della quale troviamo un’esplicita citazione alla tomba Rucellai a Firenze o alla casa traslata della Madonna di Loreto.

Foto 16 a) Aron, l’Arca del Tempio Maggiore di Firenze.

Mi preme evidenziare che quelle immagini, come quelle del Tempio, si ritrovano incise su sarcofaghi nel primo secolo d.C. a Beit She’Arim [Foto16b], così come nella sinagoga di Ostia Antica, e fra i rarissimi elementi che si conservano ci sono le due colonne che erano sui lati dell’Arca  e il mosaico nella sinagoga di Seffori [Foto16c].

Foto 16 b) Aron, incisione lapidea nella sinagoga di Kafarnahum.
Foto 16 c) Mosaico nella sinagoga di Seffori (Zippori) (foto Itamar Grinberg).

Tornando al Tempio di Firenze, mi preme confrontare, oltre ai riferimenti evidenziati, la prima edizione del libro dello Zohar – il libro dello “Splendore”- testo fondativo della Cabala, (frutto con grande probabilità del periodo “d’oro spagnolo/arabo” menzionato prima) stampato a Mantova [Foto17], dove appare per la prima volta un frontespizio su cui è rappresentata un’architettura. Il significato metaforico di questa immagine ha molte sfaccettature: rappresenta il Tempio, al contempo porta d’ingresso allo studio – dunque al sapere – con le due colonne denominate Jachin (quella a destra che significa ‘Egli stabilirà’) e Boaz (quella di sinistra, ‘In lui la forza’). Nel Tempio sono prive di ruolo strutturale, e probabilmente per questo è cresciuto il loro significato simbolico. Queste due colonne vengono richiamate dal mondo dell‘alchimia, come anche nella massoneria: le ritroviamo a rappresentare il dualismo, come il sole e la luna, il nero e il bianco, un immaginario che diviene luogo comune e che Lorenzo Bernini ha rivisitato con il suo tabernacolo di San Pietro, accrescendone il mito nel mondo cristiano.

Foto 17. Frontespizio del libro del Zohar (Libro dello splendore) edizione Mantova 1558.

Il Tempio Maggiore di Firenze ci suggerisce di soffermarci sull’argomento dell’organizzazione delle sedute all’interno delle sinagoghe.

Foto 18 a) Scuola Grande Tedesca di Padova.

Nelle sinagoghe antiche le sedute sono disposte in parallelo alle pareti laterali, talvolta a ‘C’ con anche un settore di sedute parallelo alle spalle del lato d’ingresso [Foto18a], una tradizione mantenuta da quella sefardita, mentre la sinagoga askenazita [dell’est Europa] è organizzata con tutti i fedeli orientati verso l’Arca (cioè verso Gerusalemme) [Foto18b].

Foto 18 b) Sinagoga di Pisa.

A Firenze il Tempio nasce seguendo l’organizzazione askenazita, preferita nelle sinagoghe dell’emancipazione, ma pochi anni or sono questo originale ordinamento è stato disatteso e riorganizzato alla maniera sefardita. Il cambiamento è stato disposto per superare la difficoltà di udire e seguire l’officiante che, nelle due tradizioni, assume posizioni differenti. Gli Askenaziti portano in avanti  l’officiante, in vicinanza dell’Aron, e la sola lettura solenne del Pentateuco avviene da una postazione rialzata posta al centro della sala. I Sefarditi arretrano la postazione al centro e, in molte sinagoghe italiane, fino alla estremità opposta all’Aron, proponendo due poli contrapposti.

Tra gli immigrati europei che gli Stati Uniti hanno accolto nel primo e secondo dopoguerra, ci sono stati numerosi architetti, la cui presenza ha modificato, come sappiamo,  il corso dell’architettura americana. Tra loro Eric Mendelsohn, il cui primo progetto nel nuovo mondo è del 1946. Con questo si apre anche la sua ultima stagione creativa, dopo quella in Inghilterra e l’exploit in Palestina, ed è la sinagoga dei B’nai Amoona [figli della fede] a St. Louis in Missouri. La B’nai Amoona è una congregazione, istituita nel 1884 a Sant Louis in Missouri, da immigranti ebrei provenienti da Cracovia e dai territori contesi tra Polonia e Russia, dunque Askenaziti, luoghi dove la loro presenza era segnata da persecuzioni e per tanti di loro anche da una perenne ristrettezza economica. Il B’nai Amoona voleva segnare, per un verso, l’avvenuta integrazione nel nuovo contesto sociale ed economico, e per l’altro modellare una nuova tipologia di sinagoga [Foto19a] che rispecchiasse il loro nuovo modo di concepire l’aggregazione, anche religiosa.

Foto 19 a) La B’nai Emoona Synagogue, di Eric Mendelsohn. 1946.

Nel progetto mendelsohniano una corte centrale unisce “alla pari” le varie funzioni: gli uffici amministrativi, la scuola, gli spazi per la socializzazione e tra quelli anche, e con maggior enfasi, la sinagoga.

Foto 19 b) Una nuova organizzazione dello spazio di preghiera.

La nuova organizzazione dello spazio di preghiera vede i fedeli seduti in una specie di “teatro” [Foto19b] e l’arca con i rotoli è il ‘fondale’ di un ‘palcoscenico’ sul quale viene esercitato il rito, una variante che porta all’estrema conseguenza la tradizione askenazita liberandosi però dai canoni dell’ortodossia. Nell’edificio la vela del tetto “chiude” la prospettiva verso ‘il fondale’ aumentando la percezione dimensionale, un insieme di grande suggestione spaziale e “teatrale” [Foto19c], rinvigorita dall’effetto dalla luce naturale che arriva dal lato opposto e lo spazio diviene il protagonista. Quando nel 1985 la congregazione di B’nai Amoona si è trasferita in una nuova sede, la sinagoga di Mendelshon è stata riconvertita, nonostante nel frattempo fosse stata inserita nell’elenco dei monumenti nazionali degli Stati Uniti,  in un teatro del COCA – Centro per l’Arte Contemporanea, senza dover infierire più di tanto sullo spazio originale.

 

Foto 19 c) La vela del tetto “chiude” la prospettiva verso ‘il fondale’ della sinagoga (in alto); la sua trasformazione in teatro del Centro per l’Arte Contemporanea (qui sopra), è avvenuta senza interferire più di tanto nello spazio originale.

La nuova sede della congregazione, che oltre alla sinagoga comprende, come la precedente, molti spazi comunitari, ha perso, nel complesso, il suo ruolo emblematico. Questo nuovo complesso assomiglia più a un centro commerciale [Foto20]. 

Foto 20. La nuova sede della congregazione B’nai Amoona, 1985.

Mendelshon ha progettato, nel 1950, la Park Synagogue, a Cleveland, interpretando la nuova sinagoga come un ampio planetario [Foto21a] dove la smisurata cupola ha la stessa impronta della sala. Con la precedente sinagoga ha in comune innanzitutto la spazialità e la parte centrale organizzata come un ‘teatro’ con un proprio ‘palcoscenico rituale’ [Foto21b]. Questa tipologia risulta particolarmente consona a questa congregazione ‘riformata’, dove non viene praticata separazione tra donne e uomini e dove la ‘scena della ritualità’ è diventata nel contempo un scenario con forti connotazioni teatrali.

Foto 21 a) La Park Synagogue, Eric Mendelsohon, 1950.
Foto 21 b) Lo spazio interno è organizzato come un ‘teatro’ con il proprio ‘palcoscenico rituale’.

Il progetto di Frank Lloyd Wright per la sinagoga Mont Sinai, completata nel 1956 in Pennsylvania [Foto22], invece, suscita in me forti emozioni legate a un’esperienza personale: nel 1960 mio padre, architetto, mi ha portato a vedere alla Triennale di Milano, la mostra allestita da Franco Albini e dedicata al lavoro di Frank Lloyd Wright, e ancora è presente nella mia memoria il grande plastico della sinagoga al centro di una delle sale.

Foto 22. Frank Lloyd Wright, Mont Sinai Synagogue 1956 in Pennsylvania.

La ‘poca simpatia’ di Wright verso gli ebrei è nota, nonostante questo tra i suoi committenti non pochi erano ebrei. Si racconta che la congregazione B’eni Amoona, attraverso il suo rabbino, ha suggerito all’architetto di far riferimento al tema del monte Sinai, sul quale Mosè ricevette le tavole della legge, da cui deriva la denominazione del Tempio stesso. A posteriori si è venuti a conoscere che Wright era stato impegnato, sei anni prima, nel progetto di una chiesa cattolica che non ebbe avuto seguito (è stata costruita postuma nel 1973) e che la sinagoga è il risultato di quell’esperienza. Come negli esempi precedenti dell’architettura di quei anni, vi si nota prevalere la ricerca formale, con uno spazio che spesso e volentieri prescindeva dalla tradizione, per diventare lui stesso protagonista.

Foto 23 a) Zvi Hecker, La sinagoga nel deserto, 1970.

Da una ‘opulente retorica’ a una ‘intimità espressiva’: ecco la ricerca di una nuova relazione che recupera la metafora nella sinagoga nel deserto del Negev [Foto23a], progettata nel ‘70 dall’allora giovane architetto Zvi Hecker, ed eretta all’Accademia Militare. Un edificio concepito come una formazione di cristalli, considerando come germe la geometria della Stella (o lo Scudo) di David; la pianta centrale, realizzata in cemento armato e colori, vuole essere un punto di riferimento, un ‘landmark’ per un territorio. Il suo interno è dimensionato per accogliere piccoli gruppi in preghiera e studio. Il vero protagonista è il ruolo metaforico esteso alla luce. In forte contrasto con la luce totale e abbagliante del deserto, all’interno Hecker propone un’illuminazione naturale soffusa che rimbalza tra le sfaccettature dei poliedri su cui fonda anche il concetto costruttivo [Foto23b]. Fanno parte della stessa geometria ‘i camini’ che favoriscono un naturale riciclo d’aria, fondamentale in quel clima. Il progetto di Hecker nasce dalla convinzione che la relazione dell’architettura con l’utopia sia inscindibile.

Foto 23 b) Zvi Hecker, la sinagoga nel deserto, 1970, vista interna.

Questo argomento ci porta all’ultimo esempio del nostro breve excursus sulle sinagoghe. Louis Khan ha progettato chiese, moschee e sinagoghe, anche se non era osservante e forse, proprio per questo, riusciva a intercettare elementi di spiritualità a prescindere dalla fede per la quale operava. Khan è stato nel 1967 chiamato da Tedi Kolek, ‘sindaco mito’ di Gerusalemme, per la progettazione della “Hurva”, una sinagoga e al contempo monumento simbolo per Gerusalemme entro le mura. Il maestoso edificio che conosciamo è opera dell’architetto ottomano Hassan Affendi e risale al 1854 [Foto24], raso al suolo insieme al quartiere ebraico dall’esercito giordano durante la guerra del 1948, il conflitto che è sfociato nella nascita dello stato d’Israele.

Il progetto presentato da Khan è un esempio nobile di architettura che nasce in seno alla tradizione ma che sa mantenersi lontano dai luoghi comuni di cui, spesso e volentieri, le religioni tendono a circondarsi: la diffusa e dominante idea che circolava e che riteneva che la Hurva dovesse essere ricostruita come e dove sorgeva.

Foto 24, Hassan Affendi, la sinagoga Hurva, Gerusalemme, 1854.

Kahn affronta il tema della sinagoga partendo da una traccia, un collegamento ideale che ricalca come un percorso tra due centri focali: uno è la Hurva e l’altro il ‘muro occidentale’ o del ‘pianto’ [Foto25a], la parete del muro legata al Tempio, nel luogo più vicino al punto dove, si crede, questo sorgeva, e il muro stesso è un frammento dell’apparato architettonico rimasto da allora in piedi. Ecco perché quel fronte è identificato, già dal Quattrocento, come luogo di contemplazione, diventando così una sinagoga a cielo aperto. Il tracciato di collegamento seguito da Kahn ha la funzione, nella sua intenzione, di unire i due poli di un unico luogo.

Foto 25 a) Louis Khan ha lavorato sul progetto della sinagoga della Hurva dal 1967 al 1972.

La Hurva è posta su un rilievo, a una quota non molto diversa da quella della Moschea di Omar. L’immagine proposta da Kahn [Foto25b] è capace di evocare solennità: l’interno è composto da spazi che si presentano come aggregazioni di “luoghi”.

Foto 25 b) Pianta

Sono cappelle tra loro  raccordate che insieme compongono uno spazio fuori del comune, introverso: un’articolazione ribadita attraverso i tagli di luce. Nell’impianto architettonico, anche se a pianta centrale, è fortemente percepita la direzionalità, il fulcro, che nelle sinagoghe askenazite è chiamato “Bimà” [Foto25c] – il luogo di lettura dalla Torah.

Foto 25 c) Le immagini illustrano una ricostruzione virtuale del progetto di Kahn, realizzata da Kent Larsomn.

Questo è comunemente un ‘oggetto d’arredo’, però è reinterpretato e molto rinvigorito nelle sue dimensioni, proporzioni e materiali, diventando così una ‘architettura’ all’interno, di un ‘recinto’, ed è sorprendente l’attinenza formale del suo recinto con quello del Villalpando [cfr supra Foto 4], oltre che con quello delle numerose immagini elaborate per il tabernacolo nel deserto.

Le sedute sono disposte a ‘C’ secondo la tradizione sefardita, e la depressione del settore centrale potrebbe essere ispirata dalla tradizione Caraità [cfr la sezione nella Foto 25c qui sopra], dunque non segue modelli conosciuti, ma li reinventa.

Il progetto di Kahn fu respinto proprio per le sue qualità visionarie; si preferì invece la ricostruzione di quanto distrutto (“com’era e dov’era”), restaurando attraverso l’immagine conosciuta da un lato la nostalgia e dall’altra l’atteggiamento romantico , e rapportandosi alla storia come “garante”, fondando e sottomettendo il futuro al passato – un percorso che possiamo considerare speculare a quello illustrato prima nel caso di Livorno, precedente di pochi anni.

Questo fatto testimonia un epocale cambiamento nella società ebraica a seguito della Shoah e della costituzione dello stato d’Israele, nel suo rapportarsi alla diaspora. Ne emerge che l’identità nazionale di Israele ancora stenta di maturare.

Il muro occidentale, in mancanza di una solida controproposta progettuale a quella fatta cadere di Louis Khan, consolida la separazione tra ciò che si presenta come un “piazzale del muro” e il tessuto urbano della città vecchia, la sua storia e quella del popolo ebraico.

Il muro è venerato come un simulacro del Tempio [Foto26] ed è vissuto come una sinagoga: ma senza che lo sia!

Foto 26. Il “muro occidentale” è vissuto come una sinagoga, senza che lo sia.

* L’Arch. David Palterer è progettista, artista, designer, docente nel Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico Milano sede di Mantova.

Il testo qui sopra pubblicato è quello dell’intervento che il Prof. David Palterer ha svolto al Corso di Aggiornamento organizzato il 22 aprile 2017 presso l’Università Cattolica di Milano da Fondazione Crocevia con l’associazione Costruire per il Sacro, la Casa Editrice Domus Europa e il nostro sito web, Jerusalem lospazioltre.it : cfr https://www.jerusalem-lospazioltre.it/lo-spazio-culto-larchitettura-sa-parlare-allanima/ 

 

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