Note a margine di un corso di formazione professionale

di Stefano Mavilio

ROMA – Lodevole iniziativa della Consulta Giovani Architetti Roma, il convegno Pregare in movimento-luoghi di culto interreligiosi, svoltosi l’8 Novembre 2017 presso la Casa dell’Architettura di Piazza Manfredo Fanti e sorto “dalla volontà di iniziare un percorso di ricerca e di formazione professionale nell’ambito dell’architettura sacra, con l’obiettivo di acquisire e offrire una maggiore consapevolezza ad architetti e professionisti interessati alla tematica.” L’incontro, moderato da Ginevra Selli, “giovane mamma dinamica, creativa ma anche puntuale ed affidabile” nonché membro della Consulta, si è articolato in due sessioni – mattutina e pomeridiana – assai diverse nei contenuti e nella qualità dei relatori, compresi un paio di interventi al limite della proposta commerciale. Ne diamo breve relazione…

Mattina. Apre il convegno, dopo i saluti di rito, il dott. Paolo Palomba, direttore del Tavolo Interreligioso di Roma, nato nel 1998 con la firma di un Protocollo d’Intesa tra il Comune e sei Comunità Religiose: la Comunità ebraica di Roma; il Coordinamento delle Chiese Valdesi, Metodiste, Battiste, Luterana, Salutista di Roma; il Centro Islamico Culturale d’Italia; la Fondazione Maitreya dell’Unione Buddhista italiana; l’Unione Induista Italiana e la Comunità Ortodossa Romena. Il tavolo così composto si propone di “offrire alle scuole, ad altre Istituzioni e alla cittadinanza più in generale, documentazione, seminari, tavole rotonde, materiali multimediali, esperti, ecc., che siano utili ad ampliare la conoscenza degli elementi fondanti delle diverse fedi e religioni.”

Il dott. Palomba partecipa inoltre come esperto di Buddhismo Mahāyāna e relaziona sul tema del Tempio, descrivendone vuoi le caratteristiche tipo-morfologiche che le ulteriori e diverse qualità, secondo una scaletta proposta dagli organizzatori del convegno, scaletta che prevedeva che venissero messe a confronto alcune qualità dei luoghi di culto, quali la tipologia edilizia, la luce, il colore, il suono, al fine di provare a definire cosa accomuna ed eventualmente in cosa tali luoghi differiscano, segnalando fin d’ora che la definizione “architetture sacre”, è definizione impropria ed equivoca.

Anche se non successivo al precedente, segnalo a seguire l’intervento di Swamini Shuddhananda Ghiri, che relaziona sul tema del Tempio Induista, per tenere accorpati invece gli interventi sui luoghi di culto delle religioni Abramitiche, con le quali, per cultura personale, ho più confidenza.

“Il tempio Indù più che un luogo di raccolta dei devoti, è l’espressione immanente di un progetto: rappresenta la casa e il corpo di Dio”. Nel tempio è presente il “palo”, che riunifica i tre livelli: ctonio, terreno e celeste. È sempre presente un progetto iconografico; l’iconografia è antropomorfa, zoomorfa e cosmica e le immagini rappresentano – con progressione dal basso verso l’alto – scene riprese dalla vita quotidiana fin su, al consesso dei pianeti, giacché il Tempio simbolicamente è “Monte Meru”, Montagna sacra, della quale il palo sciamanico di cui sopra, è ulteriore rappresentazione. È pertanto ponte e scala: è tramite fra il micro e il macro cosmo; è “Axis Mundi” e “Coloana Cerului” (colonna del Cielo). Planimetricamente riproduce il corpo con evidenti corrispondenze fra le parti del corpo del Dio e le parti del tempio: un Dio certamente antropomorfizzato al cui cuore – in pianta – corrisponde lo spazio dei fedeli. “Il tempio può essere visto come una mappa rituale, cosmologica e filosofica”.

L’orientamento est ovest è evidentemente legato al passaggio del sole in particolare nei momenti di transito fra il giorno e la notte – mattino mezzodì e tramonto. Simbolicamente il tempio si iscrive nel Vastu Purusha Mandala (del quale ci lasciò rappresentazione Le Corbusier durante il suo soggiorno in India), la cui unità di base è il quadrato su base numerica nove, con progressione su ciascun lato pari a 1-2-3-2-1, non senza analogie con il Ming Tang, quadrato simbolico a base tre, anch’esso pertanto riferente al numero nove, in memoria delle nove regioni nelle quali era suddivisa la Cina nel terzo millennio avanti Cristo, ad immagine del cosmo. La ritualità costruttiva coinvolge diverse figure, giacché qui, come in altre costruzioni rituali Induiste, quali l’Altare Vedico, la sacralità è nel rituale, essendo i concetti di sacro e profano assai sfumati e quindi poco definiti nella teoria.

A metà mattinata si apre la “sezione” (come la definisco per comodità) relativa alle Confessioni monoteistiche. Tale sezione segue quella relativa ad Induismo e Buddhismo non senza interessanti rinvii, giacché – come avremo modo di vedere – anche in questo caso sono evidenti i fondamenti cosmici, dei quali abitualmente trattano gli antropologi esperti in storia delle religioni, piuttosto che i teologi e gli architetti. Apre il segmento Amedeo Terracina, membro eminente della Comunità Ebraica Romana, docente del gruppo di Paolo Portoghesi, esperto di simbolica, filologo e architetto. Intervento succinto ma denso di significati, come vorrebbe la teoretica dei convegni. A proposito del suo intervento, come di quelli che lo hanno seguito, più che nel dettaglio dei contenuti, cercherò di relazionare – secondo le intenzioni dei curatori del convegno – in merito cosa accomuni i Cristiani, gli Ebrei e i Musulmani nel ristretto, e quindi assai vasto, ambito della costruzione del Tempio.

Certamente li accomuna l’idea di domus perché, sia per il cristianesimo delle origini, sia per l’ebraismo, il primo luogo di culto è la casa purché – nel caso dell’ebraismo – ci sia una sala per custodire il Rotolo della legge; a questa condizione, la casa diventa ipso facto una sinagoga, così come la domus ecclesiae dei cristiani fu chiesa, come testimoniano i resti di Dura Europos.

La luce del giorno, dies = Dio (che l’amico Terracina correttamente mai nomina), fa palese riferimento alla divinità e viceversa; così scopriamo che sono dodici le finestre aperte sul muro della sinagoga che guarda Gerusalemme, introducendo il tema dell’orientamento che è presente in modo diverso nelle tre “liturgie costruttive”: ove la sinagoga guarda Gerusalemme, la chiesa-edificio si orienta (tecnicamente “si volge ad est”), mentre la moschea ha giacitura ortogonale alla “Qibla”,  direzione cui deve rivolgere il proprio viso il devoto musulmano quando sia impegnato nella  preghiera: questa è la linea ipotetica che congiunge a La Mecca, orientando il fedele al santuario della Kaʿba.

Il dato dell’orientamento (orio, oriente, ur in tedesco: ‘forma primordiale’), ci rammenta che anche le religioni dell’unico Dio hanno una base antropo-cosmica: Cristo non è forse Sol Invictus, che risorse dal sepolcro, come il Sole risorge ogni dì? E lo Shabbath, (che si celebra a partire dalla notte fra il venerdì e il sabato), festa del riposo, non deriva forse dal culto Babilonese di Saturno, il “lento”, che gli ebrei chiamano semplicemente Shabbetai e che a Roma diremmo Saturnino, celebrato originariamente anche la notte fra il martedì ed il mercoledì? Non è compito mio né questa la sede ma vale la pena azzardare che talune reminiscenze dell’ambiente Babilonese e quindi Sumero Caldeo, permangano nelle tre religioni dell’unico Dio per il tramite dell’Ebraismo; anche e soprattutto in considerazione del fatto che i Caldei, come i Sumeri, furono astronomi eccellenti (inventori perfino dello zodiaco); come gli Indiani conobbero infatti la precessione degli equinozi, pur non possedendo strumenti di misurazione che non fossero piattaforme pensili, quali furono gli ziqqurat, certamente architetture simboliche, oltre che osservatori predisposti allo scopo.

Ulteriori riferimenti a ciò che accomuna, piuttosto che a ciò che divide, sono quelli al numero 12 (le dodici finestre di cui sopra), a memoria – nelle diverse simboliche – vuoi delle dodici Tribù, vuoi dei dodici Apostoli, vuoi dei dodici spigoli della Kaʿba, come dei dodici Imam dello Sciismo Duodecimano. E ancora una volta non posso fare a meno di notare che il 12 è un numero cosmico.

Rammenta ancora Terracina come la pianta usuale della Sinagoga sia tanto quadrata quanto rettangolare di tipo basilicale, giacché – oltre che a derivare dalla tradizione classica – la pianta rettangolare consente una migliore disposizione degli uomini e delle donne, pur prevedendo il Tempio un solo comune ingresso. Ulteriore elemento comune (salvo che per l’Islam), è l’altare luogo ove si legge la Torah che deve essere al centro della sala, posizionato sulla bimà (il bema delle chiese cattoliche, luogo rialzato), perché la parola sia “circondata” da uomini e donne (come nel caso della disposizione a circumstantes nella liturgia post-conciliare).

Le immagini sono vietate, solo la cortina dell’armadio porta due leoni nella tradizione Ashkenazita, a memoria della tribù di Giuda. Le sinagoghe, come le chiese e le moschee, hanno spesso due sale, la maggiore per le celebrazioni festive, la piccina per le preghiere quotidiane (quella che noi diciamo feriale).

La Torah viene letta da un Rabbino; diversamente, chiunque purché dotato nella dizione, può officiare la preghiera ordinaria. Il Rotolo, come Il Vangelo, viene portato in processione.

E ancora: accanto alla Sinagoga, si erge la casa di studio, la Beth midrash (nell’Islam è la Madrasa) che addirittura va innalzata ancor prima della costruzione della Sinagoga stessa. Anche la simbolica dell’acqua è comune alle tre confessioni: nell’ebraismo si realizza prima il luogo per il bagno rituale, quindi la casa di studio, poi la sinagoga. La voce del signore è nel silenzio (come recita il Libro dei Re). E ancora: abbiamo un momento di preghiera individuale e un momento per quella comune (cum unus) ed è forte l’aspetto del rivolgersi al sociale (“ite missa est”). La chiamata infine, è altro elemento comune: la Sinagoga è luogo ove si conviene (συναγωγή), tale quale la chiesa cattolica (che è ἐκκλησία, assemblea: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”); il muezzin – infine – chiama la preghiera.

Altrettanto interessante l’intervento di Claudia Manenti, architetto, Direttrice del Centro Dies Domini presso la Fondazione del Cardinale Lercaro a Bologna, che ci rammenta come la presenza della divinità trovi il suo compimento in Cristo – Dio che diviene uomo – mediante il quale la quotidianità si sacralizza con la presenza del Dio incarnato: per i cristiani il corpo di Cristo si fa Tempio (“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”); la chiesa è quindi “edificio spirituale” (San Paolo, lettera agli Efesini 2) fatto di pietre vive (ove Egli è pietra angolare). Si direbbe allora che la Comunità non abbia bisogno di un luogo edificato specialistico, giacché la Chiesa è edificio immateriale; ma se questo è vero per l’aspetto liturgico, non conviene per l’aspetto antropologico: l’essere umano in quanto tale, infatti, necessita che il suo intorno rappresenti i suoi valori. La comunità necessita di uno spazio che sia rappresentativo della propria fede: si rappresenta nella materia ciò che si professa nella liturgia. “In questo senso” rammenta Richter “ la liturgia è un luogo dalla triplice caratteristica: nella liturgia della Parola, lo spazio assume forma di assemblea; nella celebrazione eucaristica, forma di banchetto; per la meditazione ha bisogno di una forma da raccoglimento.”

Per la preghiera personale, come nell’ebraismo, non c’è luogo preferenziale, purché ci sia la presenza eucaristica; le preghiere comunitarie, viceversa, prevedono la presenza dei poli liturgici. Diverso il caso, di grande attualità, dei luoghi di preghiera per i cosiddetti non-luoghi, primi fra tutti gli aeroporti. Qui, da diversi anni, esistono anche luoghi “interculturali” ove spesso si propone uno spazio di preghiera condiviso, che per non mancare di rispetto ad alcuno, si presenta piuttosto come spazio di meditazione non connotato, che pertanto, in quanto non connotato, si qualifica in definitiva come spazio di nessuno. Tornerò più avanti su questa tematica.

La Manenti presenta poi il caso delle chiese provvisorie realizzate in occasione del terremoto che colpì il modenese, argomento al quale accenno brevemente. Le chiese provvisorie, proposte dal centro Dies Domini, dovevano rispondere a pochi ma chiari criteri progettuali: economicità, rapidità di esecuzione,

rispondenza alle esigenze liturgiche, contemporaneità del linguaggio architettonico, versatilità dell’uso dell’edificio, giacché essendo chiaro che tutto ciò che è provvisorio si qualificherà col tempo come permanente, tanto vale prevedere usi futuri diversi da quelli cultuali. Belle e funzionali quelle già realizzate.

Chiude la sessione mattutina il Direttore della COREIS, Comunità Religiosa Islamica Italiana, il dott. Abdul Turrini, che ci rammenta come per il musulmano la prima preghiera – delle cinque canoniche – sia al sorgere del sole; la seconda al mezzogiorno, quindi a metà pomeriggio, al tramonto, all’approssimarsi della notte (non diversamente direi dalla “liturgia delle ore”, che si articola su un ciclo di sei: alla Prima ora, alla Terza, alla Sesta, alla Nona, ai Vespri, alla Compieta).

Ancora Turrini rammenta ai non esperti quali siano i “cinque pilastri della fede” per il devoto dell’Islam:

la testimonianza, le preghiere, il digiuno, l’elemosina ed infine pellegrinaggio alla mecca. In quanto ai luoghi di culto, non esiste un prototipo, né stile ma direzione e intenzione sono necessari. La direzione, soprattutto che è quella per la quale il fedele deve pregare rivolto alla Kaʿba, la quale, preesistente all’Islam, avrebbe addirittura origine adamitica; ripristinata da Abramo e poi dal Profeta, essa è centro del mondo, e quindi axis mundi. Ulteriore luogo della geografia sacra Islamica è la spianata del Tempio, a Gerusalemme, ove sorge la Cupola della Rocca, luogo ove Giacobbe vide la scala che collegava il Cielo alla terra e dal quale il Profeta a sua volta ascese ai cieli in compagnia dell’Arcangelo Gabriele. La preghiera per il fedele dell’Islam, come per gli altri culti, è personale e collettiva, giacché – recita il Corano – “ovunque vi rivolgiate là è il volto di Dio”. Segnala infine Turrini che, come nel cristianesimo il Verbo si è fatto corpo, nell’Islam il Verbo si è fatto parola, libro, segno. Non a caso, delle confessioni che formano la cosiddetta Comunità del Libro, l’Islam è “membro” a pieno titolo, perché il libro fu dettato al Profeta direttamente da Gabriele. Altre religioni del Libro sono l’Ebraismo, l’Induismo e lo Zoroastrismo, del quale – purtroppo – manca testimonianza in questo e in altri analoghi convegni.

Pomeriggio. Sono invece sembrate straordinariamente interessanti per “dilettantismo” (nel senso proprio di scarsa conoscenza delle questioni, come fa colui che si diletta), le relazioni pomeridiane. Spicca fra tutte quella dell’ing. Francesco Sforza Service Design per un progetto di architettura – nella quale si approccia il progetto di un luogo di culto inter-religioso applicando le regole del “Service design” e nella quale a fronte delle buone intenzioni (“lo scopo delle metodologie del service design è infatti quello di progettare seguendo i bisogni dei consumatori o dei partecipanti, in modo da rendere il servizio user friendly, competitivo e rilevante per i consumatori”), nel “tentativo di delineare un format replicabile e adattabile a diversi contesti” (!!) anche mediante analisi di settore (benchmarking), usando pertanto gli strumenti dell’economia, si adoperano tali strategie “progettuali” applicandole erroneamente ad un contesto del quale evidentemente si ignorano perfino i principi più elementari.

Pertanto all’Assemblea dei fedeli e/o di tutti coloro che volessero dire una preghiera, o semplicemente rilassarsi un momento, si sostituisce il modello astratto delle “personas”, intese quali fictional characters that have been developed to characterise the key traits of a particular group of your target audience.

Sia chiaro: non escludo che ai fini di una architettura “partecipata”, quale quella proposta dalla Manenti nel caso della ricostruzione post terremoto, si possano usare certi strumenti quali “le interviste e i workshop di co-design”, orientati alla definizione di specifici outcome di progetto (!); il punto semmai è che qui si ignora completamente che in questo specifico ambito progettuale le regole sono dettate dalla liturgia, e che – quale che sia lo spazio che si vuole progettare, quale che sia il culto, fosse anche un luogo neutro per la meditazione che comunque è tutt’altro – esiste una liturgia per ciascuna delle religioni, culti, o semplici modalità esistenziali che non prevedano un Principio Primo. Esiste una liturgia eucaristica, una liturgia della parola, comune a tutti; esiste perfino una liturgia della “centratura” in sé. E ciascuna liturgia ha le sue regole. Ignorare le regole, i fondamenti, perfino il “bignamino” dell’agire liturgico, a me pare scellerato.

La ricerca, come che sia, verteva sul raggiungimento di un prototipo di centro inter-religioso sul modello degli spazi multi-fede, delle “sale tranquille, di pace di fede di riflessione”, delle quiet room, con caratteristiche ancora non ben definite tanto che lo stesso autore ci dice che “il loro design è un problema aperto”. Si azzardano comunque ipotesi: il tipo più comune è uno spazio bianco. Più interessante il contesto; queste sale di preghiera, senza apparati simbolici o iconografici, che ne farebbero spazi esclusivi, sono calati in un complesso edilizio (sto immaginando) nel quale conviverebbero più funzioni.

Da tempo si va dicendo che una simile ipotesi non fa riferimento a un centro inter-religioso; un simile spazio (vedi sopra), non può aggregare per la sola presenza di un luogo, quale che sia, ma deve offrire ulteriori performances. Ad esempio: un piccolo centro studi (chiamalo madrasa, beth midrash, biblioteca con sale di studio), giacché lo studio aggrega, genera curiosità, desiderio di scambiare opinioni. Scambiare opinioni è alla base del superamento dell’orrore del diverso (il βαρβαρός dei Greci). Quindi spazi per lo sport (l’oratorio?) e per l’assistenza ai deboli e agli emarginati. Senza calcare troppo la mano sulla caffetteria che forse servirà ad aggregare i più giovani, magari con il wi-fi gratuito.

Difficili da commentare gli interventi a seguire. Uno spot promozionale per i pannelli strutturali in lamellare (si arriva ai dieci piani!). Una pasticciata relazione sui templi valdesi e metodisti. Una lezione di bio-architettura di tipo agiografico, a beneficio del relatore, dalla quale scopriamo che in centro America si fanno ottime “camere a canne” (a Roma storicamente se ne facevano di migliori con le medesime canne di fiume) e che torna utile costruire con le terre crude miscelate a inerti vegetali (nel centro Italia si fa da sempre); ma scopriamo pure che si possono costruire ottime coperture basate su geometrie complesse con semplici artifici di geometria spaziale e materiali poveri, perfino riciclando il pattume (a cosa servano nel contesto liturgico dette coperture rimane poco chiaro). Infine una buona presentazione di come imbastire un progetto europeo, che con i luoghi di culto inter-religiosi legava poco.

Non è seguito dibattito pertanto lo propongo, qui ed ora.

In primis una domanda nello specifico della forma: perché “pregare in movimento”? Si allude a una modalità liturgica o al cambio dei tempi e pertanto a nuove modalità progettuali da approcciare con strumenti operativi, professionali e – perché no – con tecnologie adeguate ai tempi che cambiano? Ove lo scenario questo fosse, riaffermo la verità per la quale un luogo ove si svolge una azione liturgica, quale che sia, fosse anche un doloroso raccoglimento, va progettato a servizio di detta necessità liturgica. Non se ne può prescindere. Si segnala quindi la necessità di uno studio attento e profondo di conoscenze che provengano da altri campi del sapere: la teologia, la storia delle religioni, la liturgia, la antropologia, la prossemica, la mitologia, l’astronomia, la storia dell’arte, la filosofia, la simbolica. In poche parole: tutto ciò che è visibile e invisibile. Soprattutto ciò che è invisibile. Le idee, come ci rammenta Ibn Arabi, risiedono nel “Mondo di Mezzo”, ove si materializzano le Entità Cherubiniche e si spiritualizzano i corpi fisici. A tali altezze si sale con le “scale”: per gli Ebrei rappresentate simbolicamente dalla scala di Giacobbe; per i Cristiani da Maria; per i Musulmani dall’arcangelo Gabriele; per i Buddisti e gli Induisti dall’Axis Mundi, palo sciamanico; per tutti gli altri, che non credono alla metafisica e neanche nel Buon Dio, basterà un cuscino, purché comodo.

In secundis, nello specifico dei contenuti. Un centro inter-religioso non è semplicemente un luogo di preghiera o di culto, né un assemblaggio di luoghi preghiera e di culto artificiosamente accostati; sarebbe inutile e dispendioso. Ciascuno se ne stia a casa sua. Un centro inter-religioso è un luogo di incontro e va pertanto attrezzato come tale. Un centro inter-religioso non è una sala di preghiera localizzata in un ospedale o in un aeroporto. La necessità di comprimere lo spazio, costringe in tal caso ad uno spazio aniconico nel quale si potrebbero perdere i riferimenti e i necessari “supporti” per la liturgia. Né può diventare un supermarket della fede, con singoli scaffali per la devozione, il “forum del buon Dio”, come suggeriva cinicamente Le Corbusier.

I luoghi per la preghiera, le sale di preghiera, le stanze per la meditazione, dark or quiet rooms, sono luoghi per la preghiera personale. Non adunano, non chiamano. Pertanto si evitino le confusioni.

Gerusalemme, di contro, modello di qualunque “centro inter-religioso” in quanto luogo appartenente ad una “geografia sacra” convoca le tre religioni.

In conclusione. Ottimo il convengo nelle intenzioni, bene organizzato e ben condotto. Ciò nonostante ironicamente mi chiedo: a quando una Consulta degli Anziani Architetti di Roma…?

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Nell’immagine di apertura, il Pantheon, luogo di culto interreligioso dell’antica Roma, in  un’incisione del XVI secolo di Étienne Dupérac (da Wikipedia). Qui sopra la locandina dell’incontro romano dell’8 novembre 2017.

 

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