Insieme col grattacielo Pirelli di Milano, la Concattedrale di Taranto è l’opera più conosciuta di Gio Ponti. Ma quest’ultima è quella nella quale la sua capacità progettuale si è espressa più compiutamente. Commissionata durate il Concilio Vaticano II dal Vescovo di Taranto, Mons. Guglielmo Motolese, l’opera è stata costruita tra il 1967 e il 1970.
Nel disegno ricorre la figura del “diamante” che Ponti assunse quale segno di perfezione geometrica: è ripetuta in facciata, nella “vela” che si erge alta 40 metri in posizione arretrata al di sopra della copertura, nelle molteplici aperture e nei moduli che ornano lo spazio interno, nei poli liturgici.
La vela è l’elemento svettante caratteristico della Concattedrale, che è dedicata alla Gran Madre di Dio e a San Cataldo. In essa si assommano i ricordi del campanile e della cupola, risolti con la leggerezza del traforo che consente trasparenza all’edificato ma allo stesso tempo con l’imponenza di un volume che entra nel cielo e regge in alto la croce.
In questa vela si ravvisa la possibilità di generare forza espressiva anche nei modi compositivi tipici dei nostri giorni.
La “vela” vista dalla facciata posteriore. (foto C. Giordano)
Con le sue superfici bianche, come del resto tutto il corpo della Concattedrale, la “vela” riesce a smateralizzare il più greve nonché problematico dei materiali da costruzione, il cemento usato “a vista”: che rende benissimo e con facilità l’approccio brutalista o altre forme di corposa plasticità, ma solo in soluzioni come questa adottata da Gio Ponti si trasfigura in una sublime levità.
Che ha dato luogo a problemi conservativi non indifferenti, dovuti a carenze verificatesi al momento della realizzazione. Il cemento infatti è materiale poroso e va protetto dalle filtrazioni di umidità che, ossidando i ferri dell’armatura, ne provoca la dilatazione. La conseguenza è il distacco del materiale della superficie che rende desolata la figura dell’edificio. A lungo andare la corrosione del materiale può giungere a minacciare la stabilità stessa della fabbrica.
Nel caso della “vela” l’ammaloramento è stato particolarmente rapido perché la sua realizzazione è avvenuta poggiando l’armatura all’interno dei casseri appositamente costruiti a pie’ d’opera e quindi versandovi il cemento: lo spessore di copriferro è risultato minimo. L’aria salina ha presto portato alla degenerazione dell’insieme: il restauro si è reso necessario già 30 anni dopo la conclusione della costruzione.
A restauro compiuto, l’opera risplende oggi nella perfezione delle sue linee. Il suo riflesso nell’acqua delle tre vasche antistanti il prospetto principale dell’edificio ne completa l’immagine e la rende familiare alla terra quanto al cielo.