CAPITOLO 8
Alla vigilia della pubblicazione del numero 20 di ArtApp (www.artapp.it) che ha per tema Il Segno, mi accingo a scriverne come di consueto l’editoriale (il numero uscirà a dicembre 2018). Servirà da spunto ai vari contributi che declineranno il tema nelle più disparate arti. Vorrei trattare il tema della tecnica, sviscerarne il significato che nel tempo si è modificato radicalmente fino alla tecnologia digitale dove l’invenzione umana e la presunta scoperta umana sostituiscono l’elaborazione tecnica all’esempio della natura.
Francesco di Giorgio Martini per garantire eternità al Santuario della Madonna del Calcinaio a Cortona (1460) tratta le membrature della fabbrica come quelle di un essere vivente. Garantendo loro la stessa umidità del corpo umano mantiene viva la carbonatazione della calce in grado di ri-cicatrizzare le murature anche quando il terremoto le ha fessurate. Una tecnica affinata già dagli antichi romani per acquedotti e infrastrutture che attraversavano zone sismiche; messa nel dimenticatoio dalla scoperta del cemento Portland, ma ancor prima dal pensiero illuminista che non è in grado di provare che la calce, restando viva, mantiene per sempre la memoria della sua provenienza.
L’età moderna nasce nel ‘500 col Rinascimento. Il Rinascimento studia i classici, ma mette in crisi totale il mondo classico. Da quel momento, il pensiero platonico-aristotelico viene a poco a poco sostituito da quello razionale, illuminista, cartesiano. L’uomo si incammina verso un orizzonte – quello illuministico – che gli imporrà di credere solo in ciò che la sua mente riesce a comprendere.
Nel ‘700 l’uomo scopre di essere un soggetto attivo che può anche non subire gli eventi, ma parteciparvi. Questo lo porterà a credere sempre più di poterli anche modificare. Non si fida più di quello che gli viene detto e vuole scoprire il come ancora prima del perché. Così il pensiero razionale moderno per studiare le cose deve fermarle. Al contrario per Aristotele le cose non costituivano un fatto, ma un farsi. Le cose non sono: accadono. Prima del ‘500 era difficile distinguere l’oggetto animato da quello inanimato. Nella mitologia la Terra si muove come si muove l’uomo. È Cartesio che separa definitivamente l’animato dall’inanimato. Nel pensiero moderno il terremoto va fermato. La modernità impone a qualsiasi cosa la sua immagine statica perché ha bisogno di controllare il funzionamento del mondo.
Perché lo spazio esista, il soggetto deve stare fermo; le relazioni passano in secondo piano, anche se è evidente e banale che il soggetto è mobile per definizione: muoversi è fisiologico. Da qui ha origine la modernità, che vuole fermare le migrazioni, come il terremoto: per studiarle e modificarle. Una rivoluzione niente affatto indolore per l’architettura perché di fatto l’architetto da inventore di luoghi di relazione, quindi profondamente umanista, rischia di occuparsi di semplici spazi: un mestiere che non è il suo, ma dei tecnici.
Efficienza e produttività sono valori della tecnica coi quali superare i limiti che la natura ci impone. Ma la natura oggi, l’ha spiegato molto bene Heidegger, non è più pensata come abitazione dell’uomo, ma come materia, e la tecnica è diventata il mezzo per sfruttarla al massimo. Pensare che plasmare la natura a nostro piacimento sia un nostro diritto, imponendolo agli altri esseri viventi, ci porta a trascurare gli effetti impattanti che questo esercita anche su di noi. Una visione che non esclude il potenziamento umano fino alla trasformazione del nostro corpo, sconfinando nell’ibridazione uomo-macchina (teoria del post umano).
È così che “la tecnica da strumento nelle mani dell’uomo per dominare e controllare la natura diventa l’ambiente dell’uomo” (Umberto Galimberti “Psiche e Techne”, Feltrinelli).
Nei virtuosismi dell’architettura decostruttivista la tecnica permette di realizzare le rappresentazioni degli artisti futuristi come Balla e Boccioni facendo cadere uno dei principi fondamentali della tecnica, che ha sempre significato il raggiungimento del massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi.
Per capire cosa è successo quindi occorre ripercorrere il pensiero occidentale nelle sue tappe principali: dal pensiero platonico, basato sull’astrazione delle idee, a quello della cultura giudaica che pone l’uomo al centro dell’universo per dominarlo (“Dio dice ad Adamo: Dominerai sugli animali della terra, sui volatili del cielo, sugli animali delle acque marine”). Poi da quello rinascimentale, che scopre le potenzialità della natura addomesticata dalla tecnica, al pensiero tecnico corto che prevede l’uomo come soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione.
È principalmente con la tecnica che l’architettura si crede abbia ora a che fare, tuttavia le forme dell’ambiente costruito – edifici, insediamenti, paesaggio – non sono sempre e dovunque determinate esclusivamente da solidità, utilità e bellezza, ma sono anche regolate da significati.
Significati di cui abbiamo bisogno e che vengono comunicati in modo razionale e cosciente; affidati, spesso anche in modo inconsapevole, alla composizione, all’orientamento, alla collocazione, alla decorazione e alle simbologie. L’architetto inventore di luoghi di relazione ha a che fare con la parte materiale e con quella immateriale del mondo dell’abitare, per lo più con quella materiale costruisce quella immateriale.
È così che la forma costruita si relaziona al suo tempo e diviene collettiva e in grado di esprimere una visione del mondo, una teleologia i cui contenuti sono anche un intreccio di miti, di riti, di dottrine che oltretutto non sono mai confinati a una singola cultura, ma si estendono ad altre tradizioni costituendo una rete transculturale alla quale il pensiero solo razionale non si adatta.
Non pensavo a tutto questo quando nel 1999 ho progettato la cantina di Collemassari nel grossetano (www.archos.it), ma ero certo che le tecniche imparate dalla natura mi avrebbero facilitato nel pensare a un luogo attorno a questo antico processo alchemico di trasformazione dell’uva in vino e che così facendo la mia architettura si sarebbe immediatamente ritrovata a suo agio in quella natura agricola e di altissimo valore paesaggistico.
Nella cantina gli spazi più sensibili sono climatizzati unicamente con sistemi di ventilazione naturale.
Quelli delle torri del vento utilizzate negli edifici nord africani già 5.000 anni fa, del tutto simili alla funzione dei campanili delle nostre cattedrali medievali in grado di tenere in depressione l’aula liturgica per poi far entrare il calore del sagrato lastricato a sud e ricambiare l’aria di tutta l’area claustrale dell’impianto monastico.
Il vento e la luce del sole, guidati all’interno dei locali attraverso un sistema di lamelle orientabili in legno, sono l’unica fonte energetica necessaria alla climatizzazione e al ricambio naturale dell’aria primaria.
Nel grande complesso monastico di Sant’Agostino a Montalcino il ricambio dell’aria primaria di tutta l’area residenziale era garantito dall’effetto Venturi del campanile e dal “plenum” dell’aula liturgica, tuttavia sull’aspetto funzionale, ritenuto assolutamente necessario e indispensabile alla salubrità del luogo, prevaleva l’idea del respiro dell’edificio in grado di aggiungere eloquenza all’architettura proprio attraverso il comportamento di questa nei confronti di coloro che vengono ospitati e accolti. La tecnologia, allontanandosi dalla natura ha modificato il nostro modo di fare esperienza, esonerandoci dal rapporto uomo-natura ci costringe entro fragili ambiti artificiali.
Nella barricaia è una leggera brezza naturale a diffondere tra i legni delle botti il profumo del legno di cedro rosso con cui è realizzato il soffitto. In quegli umori si trasporta l’essenza germicida di quel legno garantendo il contenimento delle muffe. È questa continuamente ricercata collaborazione con la natura, i suoi cicli, i suoi elementi a creare quel particolare comfort abitativo e quella tensione tra il dentro e il fuori che la caratterizza.