Si parla di scollatura tra arte e Chiesa. Ma vi sono alcuni che si impegnano a cercare di superarla. Tra questi, il gesuita Andrea Dall’Asta è tra le voci che con maggiore passione stanno percorrendo questa strada. E il suo volume “Eclissi. Oltre il divorzio tra arte e Chiesa” (San Paolo editore, 142 pagine con illustrazioni, 16,00 euro) è una strutturata provocazione che mira a rimettere il tema al centro dell’attenzione di entrambe le parti in causa.

Il divorzio tra arte e fede continua. La storia di questa eclissiseparazione è molto lunga. Gli esiti fanno affiorare profonda incomunicabilità e grandi incomprensioni. Certo, un grande limite dell’arte contemporanea è di guardare all’uomo senza riconoscere la possibilità di redenzione”. Mentre in ambito ecclesiale si avverte “un disagio espresso da tutti in modo più o meno aperto” e tuttavia “ben pochi hanno il coraggio di intervenire con un serio approccio critico di fronte alle diverse produzioni di oggi… Il dialogo tra arte e fede diventa una sorta di manifesto portato avanti da tanti, ma nessuno ha il coraggio di assumere posizioni precise di fronte a casi concreti e attuali”.

Sono parole che lasciano trapelare un certo sconcerto, quelle usate da Andrea Dall’Asta nella prima parte dell’opera. L’autore ripercorre per grandi pennellate non la storia, ma le ragioni spirituali, culturali, teologiche e filosofiche all’origine di una seria riflessione sull’immagine: dalle iscrizioni catacombali in poi, quella che oggi chiamiamo “arte” è stata una modalità espressiva con cui la Chiesa ha cercato di suscitare la preghiera, di accompagnare la liturgia, i riti, le celebrazioni. E quando “cultura” voleva dire anche fede, se non tutte, la maggioranza delle espressioni artistiche tendeva a incarnare l’identità credente, anche al di fuori delle opere concepite per le chiese.

Ma certo il cammino autonomo intrapreso, più che dall’arte, dalla cultura in generale, ha posto la Chiesa in una condizione nuova, mai vissuta in precedenza. Più volte essa ha cercato di riannodare il dialogo tra arte e fede (pietra miliare resta l’appello rivolto da Paolo VI agli artisti nel maggio del 1964), ma di fronte alla pluralità dei linguaggi artistici ha preferito rinchiudersi su se stessa, provando un profondo senso di disagio e di smarrimento.

Da qui l’atteggiamento confuso e disorientato di una committenza ecclesiale che non sembra avere punti di riferimento. Nella diffusa mediocrità delle proposte, del fai da te dell’arte tra amatorialità e improvvisazione, si rileva un tratto comune: un nostalgico sguardo rivolto a un passato glorioso e anacronistico. L’immaginario cui fa riferimento il mondo ecclesiale, denuncia Dall’Asta, sembra essere perlopiù pre-moderno, come se la cultura del tempo presente fosse semplicemente ignorabile. Tutto sembra fare riferimento ai nuovi «neo»: «neo-bizantino», «neo-medioevale», «neo-rinascimentale», «neo-barocco», «neo-neo-classico». Le immagini si presentano come caricature imbalsamate, goffe e stereotipate in una forzata ingenuità e artificiosità, o ambigue e contraddittorie, o asettiche, nelle interpretazioni di un «francescanesimo» disincarnato, ben lontano dalla potenza espressiva di un Cimabue o di un Giotto.

L’opera di Dall’Asta si pone come un sasso gettato nello stagno: ha lo scopo di muovere le acque, di spingere i committenti eclesiastici a prendere posizione, a essere consapevoli e ponderati nelle scelte che compiono. Quindi egli si getta nella mischia, e si interroga per esempio sul principe dei polemisti nostrani, Vittorio Sgarbi, bollato come “critico tanto poco consapevole della contemporaneità quanto di grande successo mediatico”, che proprio per questo è “seguito da una folta committenza ecclesiale”. E critica a spada tratta la schiera dei produttori dediti a riproporre rievocazioni delle “testimonianze trionfali della nostra tradizione”, come Oleg Supereco, Ulisse Sartini, Natalia Tsarkova e altri.

San Fedele, il presbiterio. DI fronte al tabernacolo, si nota la Corona di spine opera di Claudio Parmiggiani e nel catino absidale i tre monocromi, oro, rosso e azzurro, di David Simpson.
San Fedele, il presbiterio. Di fronte al tabernacolo si nota la Corona di spine opera di Claudio Parmiggiani e nel catino absidale i tre monocromi, oro, rosso e azzurro, di David Simpson, che amplificano la luce irradiata dai tre finestroni alludendo alla luce trinitaria della Gerusalemme Celeste. Opere contemporanee ma ben inserite entro una chiesa che è tra i massimi esempi di architettura post tridentina.

Mentre dall’altro lato indica anche diversi concreti esempi di committenza contemporanea studiata con attenzione, a partire proprio da quanto si può vedere nella chiesa di cui egli stesso si occupa, San Fedele a Milano, ben illustrate con ampia documentazione fotografica. Nel catino absidale di San Fedele sono stati collocati tre monocromi di David Simpson che, pur attualissimi, ben si inseriscono nell’architettura di quella chiesa che è tra i massimi esempi di progetto eseguito secondo i canoni borromaici postridentini; e sull’altare maggiore, proprio di fronte all’immenso tabernacolo che domina tutto lo spazio, è stata collocata una “Corona si spine” in filo spinato, nichel e oro, opera di Claudio Parmiggiani che per forma e lucentezza e positura pare quasi come un ostensorio, una corona gloriosa che si rivela sub contraria specie. Una meditazione sul dolore che si trasfigura in luce. L’opera dialoga con il coraggioso intervento di Lucio Fontana (1957) nella seconda cappella a destra: una grande pala in ceramica, raffigurante il Sacro Cuore. Notevoli anche l’intervento recente di Nicola De Maria nel Sancta Sanctorum, nella stanza delle reliquie, con l’affresco della cupola, dai colori smaglianti e brillanti a evocare la gioia della città celeste, la Gerusalemme della fine dei tempi, fondata sul sangue dei testimoni della fede. E l’intervento di Jannis Kounellis nella cripta, concepito come meditazione sull’Apocalisse che, dialogando con una croce processionale del XV secolo in rame dorato, indaga sul tema dello svelamento di Dio alla fine dei tempi, la rivelazione di Dio come misericordia. Non mancano anche opere di Mimmo Paladino, con una serie di ex-voto, e quelle dell’artista irlandese Sean Shanahan nella cappella della Madonna del Latte. Sono sperimentazioni, espressioni del desiderio di accompagnare artisti contamporanei in un percorso che possa dare testimonianza della fede cristiana, compiuito lasciando a ciascuno la libertà di esprimersi con il proprio linguaggio, così da muoversi con sincerità e da interrogare con autenticità il fedele.

Questo di Dall’Asta è testo militante e quindi provocatorio, sin dal titolo: “Eclissi” denuncia con vera passione difficoltà e latenza di una committenza competente e impegnata. Invita a riflettere, stimola l’educazione alla visione, cerca di superare compromessi di natura ideologica e commerciale. Con l’auspicio che il periodo di assenza duri poco, il tempo di un’eclissi, appunto. Perché “attraverso l’immagine ci si definisce. Si tematizzano intenzioni e desideri, si mette a fuoco la propria ricerca identitaria”. Ne va non solo del rapporto tra Chiesa e immagini, ma dell’immagine della Chiesa stessa.

Si potrà non essere d’accordo con le posizioni di Dall’Asta e non condividere i suoi gusti. Ma non si può essere in disaccordo con la domanda che pone alla Chiesa contemporanea: quale immagine intende oggi dare di se stessa?

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