Pubblichiamo il testo redatto da Leonardo Servadio come accompagnamento per i due corsi dedicati a “Lo spazio per il culto” svoltisi nei giorni 22 aprile (“Lo spazio per il culto: metro e maestro del progettare”) e 6 giugno 2017 (“Lo spazio per il culto: conservazione e innovazione dell’ambiente urbano”) presso l’Università Cattolica di Milano, organizzati da Fondazione Crocevia insieme con l’associazione Costruire per il Sacro e con il Centro studi Domus Europa, di concerto con l’Ordine Architetti P.P.C. della Provincia di Milano e patrocinato dall’Arcidiocesi di Milano.
Il senso della progettazione dei luoghi per il culto
di Leonardo Servadio
Le chiese sotto il profilo funzionale sono edifici privi di utilità. Tranne forse quella che ne possano cavare coloro i quali sono impegnati nella loro costruzione o nella loro manutenzione. I quali un tempo potevano riceverne benefici sul piano economico significativi, ma oggi l’entità di questi è andata scemando.
Eppure la storia dell’architettura e la storia dell’arte dipanano un racconto ben diverso. Dall’espressione artistica alla conquista tecnologica, la chiesa nei secoli è sempre stata all’avanguardia. Sul piano urbanistico, non v’è abitato radicato nella storia europea che non abbia al centro una chiesa. Sul piano culturale la chiesa è sempre stata momento di vivace incontro e confronto.
Ma oggi, quando la vita culturale scorre in Internet e al meglio nei teatri, nei musei e nelle biblioteche, quando la città è irta di grattacieli e persino le stazioni ferroviarie e gli aeroporti si sono arricchiti di rilevanza segnica maggiore di quella ricoperta dalle cattedrali, qual è l’importanza dell’architettura delle chiese?
Teniamo presente che l’espansione urbana in Italia forse non ha ancora raggiunto i suoi limiti estremi, ma ci è arrivata molto vicina, avendo ormai invaso ogni ambito di quel che è terra pianeggiante: e per conseguenza la necessità di erigere nuove chiese per nuovi quartieri urbani è in via direttamente proporzionale diminuita. Ne deriva che il tema “architettura di chiese” oggi non ha rilevanza sul piano quantitativo.
Ma ne ha sul piano qualitativo? Questa è la tesi che vorremmo discutere: sapere che cosa vuol dire progettare per la Chiesa, o più in generale progettare luoghi di natura religiosa (restauri, ristrutturazioni, adeguamenti liturgici, centri di accoglienza…), ha un’importanza di primaria rilevanza per chiunque desideri firmare opere di valore, siano di architettura o design, a prescindere dalla loro destinazione d’uso. Opere che siano dense di significato. Perché l’importanza sul piano segnico, simbolico e umano dell’edificio chiesa è inversamente proporzionale al suo valore misurato sul piano strettamente utilitaristico.
Quindi laddove nell’attività progettuale o di design comunemente intesa la pregnanza del valore segnico e simbolico è scemata per lasciare posto a esercizi di fantasia che mirano a sorprendere spesso tramite artifizi formali dal sapore tecnologico ma non necessariamente ancorati a rilevanza funzionale o a necessità strutturali, nel progetto della chiesa l’architettura è sempre rimasta chiamata a conservare il valore di senso, significato e simbolo. E sono questi gli aspetti che si riferiscono più intimamente e direttamente al rapporto tra costruito e animo umano.
Nell’esaminare il progetto degli spazi per il culto si recupera questo rapporto spesso dimenticato.
Se si considerano i fondamenti dell’architettura, si vede che la sacralità è tra questi forse il più rilevante.
Il termine “sacro” si riferisce al rapporto con la divinità, ovvero all’apertura dell’umano verso quanto lo supera in quanto è concepibile come infinita alterità – e per ovvi motivi non definibile in toto.
Ma l’origine dell’architettura sta nell’opposto di questo: nella chiusura. La costruzione si fonda sulla separazione. Il muro definisce un “al di qua” e un “al di là”, un limite, una barriera. Che ha carattere difensivo e protettivo, proprio nei confronti dell’altro o degli eventi naturali minacciosi (pioggia, tempeste, calore solare). Anche la tenda del nomade ha questa funzione difensiva e protettiva.
La casa, il luogo della vita della famiglia, richiede protezione.
Anche il luogo della sacralità è, nell’antichità, un recinto: il greco témenos. Che definisce una netta distinzione: quel che è spazio sacro distinto dal profano. Ma, per quanto distinto e separato, il luogo del sacro dispone intrinsecamente di un’apertura che altrove è assente: vi avviene l’incontro col divino. Quanto sta al di là, nel mondo dello spirito, si incontra con quanto sta al di qua, nel mondo della materia.
Un prototipo, il più noto, di recinto sacro è quello del sito neolitico di Stonhenge. La separazione, per come la conosciamo oggi, è data da segni che, per quanto siano permeabili, sono anche fortemente significativi e tali da incutere un senso di rispetto o timore. Non perché non sia fisicamente possibile attraversarli, ma per il loro significato.
La capanna poteva essere circolare, esattamente come il tempio. Ma quest’ultimo assumeva una rilevanza ben diversa: non necessariamente per le sue dimensioni maggiori, ma certamente per la sua diversa destinazione.
Evidentemente questa distinzione fa sì che sin dall’inizio si verifichi la diversità tra luogo privato e luogo sacro: il luogo sacro è allo stesso tempo pubblico ma avvicinabile solo in specifiche condizioni. È quello in cui si incontra la comunità, perché se nella casa si riconosce la famiglia, nel recinto sacro tutti si riconoscono assoggettati a una stessa divinità, o a un gruppo o famiglia di divinità.
L’aspetto comunitario del luogo, e dell’atto che vi si compie – che è quello del sacrificio, cioè del “rendere sacro” – porta a far sì che il recinto sacro sia rivestito di un significato particolare.
Esso è un luogo definito, e in questo è come la casa, ma a differenza della casa è il punto di incontro tra umano e divino, tra il singolo e il tutto, tra le persone e l’alterità infinita.
Per cui i templi, ovunque, in ogni civiltà, di solito sono gli edifici più grandi e rilevanti delle varie comuntà. Sono i luoghi che trascendono la limitatezza della vita di questo mondo, perché sono collegati con l’altro mondo. Come le piramidi egizie o quelle azteche, che tra loro sono simili nell’architettura ma non nella funzione, visto che quelle azteche sono il luogo del sacrificio (che nel loro caso era sacrificio umano) e quelle egizie sono luoghi in cui la persona eminente, il faraone, entra nella vita eterna.
Ma hanno in comune, entrambe le piramidi, quel che hanno in comune tutti i luoghi sacri: essere il punto di contatto con l’alterità divina. Quindi sono luoghi dove entrare è difficile, riservato a pochi – i sacerdoti – o, nel caso delle piramidi egizie, essendo questi luoghi dell’ultima dimora faraonica, neppure a loro.
Il luogo sacro diviene “tempio”, témenos: un termine che include il concetto di separazione. Quindi il luogo che nasce come porta aperta verso l’infinitudine, diviene anch’esso luogo chiuso e separato, come la casa. Ma ha questa differenza, che il tempio è separato dalla vita di tutti i giorni, proprio perché mantiene la sua apertura verso l’infinitudine. Quindi si tratta di una separazione che non è chiusura, ma è apertura: conserva come valore primario la sacralità, ovvero l’apertura del collegamento con la divinità. E tale collegamento avviene attraverso riti strutturati e riconosciuti e tramandati: in essi si comprende la permanenza del divino a fronte del trascorrere dell’umano. La differenza richiede che la pratica del rito sia professionalizzata, appannaggio di chi ha la capacità e la conoscenza per officiarlo: i sacerdoti.
Sono loro che possono entrare nel “Santo dei Santi”, nella parte più interna e sacra del recinto sacro.
Questo aspetto non di chiusura, ma di distinzione e di specializzazione talmente importante da richiedere una dedicazione totale, è quanto conferisce al tempio la sua straordinaria importanza. Per cui l’edificio del tempio acquisisce un significato ben distinto e separato e individuato nel contesto del luogo del vivere civile. E di solito è l’edificio più elevato, che si trova più in alto, così da essere più vicino al cielo. Uno dei più noti archetipi ne è l’acropoli, la “città alta”.
Ecco le due caratteristiche del tempio: essere edificio di riferimento per tutta la comunità, ed essere collegato col divino e pertanto accessibile nella sua parte più interna solo da chi ha la capacità per farlo. Capacità che è associata alla purezza. Per cui l’ingresso nel tempio è collegata a riti di purificazione.
Queste sintetiche considerazioni relative alla genesi del tempio pongono le basi per discutere della chiesa in particolare.
La chiesa non è tempio nel senso di luogo chiuso, anche se nella tradizione dell’edificio per il culto cristiano si mantiene la distinzione del luogo riservato alle persone consacrate: il presbiterio, il luogo in cui si trova l’altare, l’elemento su cui si celebra il sacrificio. Il presbiterio si chiamava così perché vi accedevano solo i “presbiteri”, ovvero le persone più anziane (da questo termine deriva l’italiano “prete”) che, in quanto tali sono preposte allo svolgimento del rito.
Ma la chiesa è “ecclesia”, ovvero comunità. Luogo ove si trovano tutte le persone che si riconoscono nella fede. Ecco che il tempio cristiano è per eccellenza comunitario: il che deriva dalla tradizione ebraica di raccogliere la comunità nella “sinagoga”, termine che vuol dire proprio “venire assieme”, “riunirsi”.
Per concludere queste considerazioni introduttive: il tempio cristiano è luogo dove vengono assieme i fedeli e si riuniscono nella comunità allo scopo di esercitare il culto alla divinità.
Con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II (1963-65) si è chiarito che la comunità è chiamata a partecipare attivamente al rito, a non essere passiva di fronte alla celebrazione officiata dai presbiteri consacrati, ma a parteciparvi come comunità pienamente responsabile dell’azione liturgica. Per inciso, liturgia vuol dire letteralmente “azione del popolo”. Quindi l’atto liturgico è intrinsecamente atto compiuto dal popolo riunito.
La chiesa è l’edificio in cui si svolgono le liturgie. Ma non è solo questo. È anche il luogo che rappresenta tali liturgie e ne reca la memoria anche quando queste non si svolgono. Pertanto è simbolo della comunità e di quanto la tiene unita.
Tanto che nella chiesa cattolica (non in quelle riformate o protestanti) è conservato il pane consacrato e transustanziato, divento “corpo di Cristo”, in quella che si chiama custodia eucaristica o, secondo la dizione più antica, tabernacolo.
2 Il tempio e la città
Luogo della comunità e luogo della liturgia. La chiesa nella tradizione della cultura cristiana si è sempre mantenuta come centro dell’abitato.
Nel secondo dopoguerra per motivi differenti – la “laicizzazione” della società, il desiderio di costrurire tanto e in fretta, l’impetuoso urbanesimo conseguente allo sviluppo delle grandi concentrazioni industriali insieme con le necessità di ricostruzione postbellica – spesso la chiesa non è più stata al centro dei nuovi quartieri. Anzi, nella maggioranza dei casi è stata ritenuta, dall’urbanistica del periodo, come un “servizio” al pari di qualsiasi altro servizio, e persino di minore rilevanza perché non collegato a specifiche urgenze (“inutile”) quali potevano essere invece gli ospedali o le scuole. Pertanto nei quartieri periferici spesso la chiesa non è più il centro. Ma, ciò nonostante, nel corso del tempo la sua presenza ha finito comunque per porsi come luogo di riferimento del quartiere: la forza della religione si impone da sola, a prescindere dai desideri dei pianificatori urbani. Le persone si riconoscono nella chiesa, non nel centro commerciale o nella scuola, per quanto possano avere legami di affetto sia col centro commerciale, sia con la scuola o con l’ospedale.
Con la chiesa il rapporto è sempre trascendente: legato ai riti che scandiscono la vita della persone ma svincolato da interessi particolari e per conseguenza collegato a quanto ognuno sa o sospetta essere più proprio dell’essere, aldilà delle sue manifestazioni temporanee sotto forma di azioni, funzioni, proprietà. Nascita, introduzione nella comunità cristiana (battesimo), partecipazione attiva ai sacramenti (comunione e cresima), costituzione dei nuclei familiari (matrimonio), uscita da questo mondo (funerale).
Ecco quindi che la chiesa, sia antica o contemporanea, sia bella o brutta, conserva sempre le sue caratteristiche fondamentali di luogo di riferimento della comunità che si riconosce nella liturgia – e questo avviene come fatto culturale, anche prescindendo dall’effettiva frequenza ai riti o persino dalla convinzione religiosa delle persone.
Anche l’ateo riconosce che nella città europea la chiesa è elemento fondante, per il portato delle antiche tradizioni e culti che la definiscono. Proprio a conseguenza di tale portato, l’edificio chiesa nel suo complesso, così come i singoli elementi che la compongono, sono tutti densi di significato: sono tutti collegati a momenti che trascendono la quotidianità e attingono all’essenzialità.
Né si può concepire la chiesa senza in qualche modo pensare alla lunga tradizione religiosa che la definisce e che dà il senso dell’edificio.
Una finestra nella chiesa non è una finestra, ma un’apertura che consente alla luce solare di attraversare lo spazio, in esso recando il senso del rapporto tra la persona e il cosmo. Non solo, è strategicamente collocata, così da accompagnare lo svolgimento del rito nei diversi momenti della giornata. Non a caso nella tradizione le chiese sono prevalentemente “orientate”, cioè rivolte con l’abside verso oriente, così che alle prime ore del giorno la luce illumini quanto è ubicato nell’abside, ovvero l’altare e il tabernacolo nelle chiese cattoliche. Il luogo su cui si svolge il sacrificio, il luogo in cui è conservato il pane consacrato.
La luce è simbolo della divinità (Cristo è “luce del mondo”, Gv 8, 12), non è solo il fenomeno fisico quel che consente di vedere. La finestra nella chiesa non è solo un elemento funzionale, ma è in primo luogo un elemento simbolico. Da qui l’uso del rosone, che è un piccolo sole che si manifesta entro il luogo di culto, e delle vetrate istoriate la cui rilevanza raggiunge la massima espressione nelle chiese gotiche: la vetrata istoriata fa esplicitamente della luce un veicolo del messaggio evangelico.
Ma non solo le finestre, ogni singolo elemento nell’architettura delle chiese ha un suo significato e un suo valore simbolico. E anche la chiesa nel suo complesso ha un valore simbolico: non a caso la pianta della tipica basilica occidentale, con navata e transetto, conforma una croce.
Consideriamo questa densità di valori simbolici e compiamo questa succinta analisi tenendo presente che attraverso tale percorso si intende come i luoghi e gli elementi si rivestono sempre di un afflato emotivamente rilevante per le persone.
E tale rilevanza va ripensata così che la progettazione si misuri con essa e in questo modo renda presente il senso profondo dell’essere umano. Perché l’essere umano è intrinsecamente religioso – ogni cultura in ogni parte del mondo è nata dalla religione – e la religione esprime l’intimità dell’essere umano. Ma come per il credente l’aspetto emotivamente rilevante dell’architettura si ricollega al significato sacrale, per chiunque, credente o non credente, l’aspetto emotivo che è associato al senso dell’architettura e dei suoi elementi, assume un significato che si esprime nella logica derivante dalla tradizione.
Proprio come una parola, o un insieme di parole, ha uno specifico significato perché questo e proprio questo si è venuto definendo nel tempo e apprendendo all’interno della specifica comunità di parlanti, così gli elementi dell’architettura e l’architettura nel suo complesso hanno un significato per coloro che sono cresciuti in quell’universo costruito. E tale significato non è cancellato per il fatto che qualcuno non partecipi al culto, se questi nasce e cresce e vive entro quella comunità. Esattamente come la parola “casa” non cessa di avere quel significato, anche per chi per i più diversi motivi decida di vivere in un hotel o sia costretto a pernottare sotto un ponte.
Come le parole e le frasi, anche le architetture e i loro elementi mantengono il loro significato all’interno di una comunità che è definita da una lunga e radicata storia, col suo intreccio di cultura, di tradizioni, di usanze. Di qui la necessità di esplorare il senso di queste parole, ovvero il senso di questi elementi, nell’economia dell’architettura esattamente come avviene con la filologia e le glottologia.
Prima di addentarci in un’analisi più specifica di queste “parole”, è bene tuttavia porre un’altra domanda: nel suo complesso che cos’è la progettazione architettonica?
Progettare, eguale a “gettare avanti”. Non solo perché il progetto viene prima della costruzione, ma anche perché più in generale si guarda al futuro: e non solo di quel che sarà il singolo edificio, ma di quel che sarà il complesso dell’ambiente in cui esso si collocherà.
L’architettura sempre comporta una modifica dell’ambiente e pertanto è sempre una progettazione ambientale, non solo del singolo oggetto, ma anche del suo contesto.
Ecco che l’architettura offre un duplice servizio.
Una parte di questo servizio, consiste nel fatto che il progettista è chiamato a rispondere ai desideri e alle necessità del committente, a dar loro una forma definita. Con maieutica capacità, è – o sarebbe, non tutti purtroppo ne hanno la capacità – chiamato a saper leggere dentro (intelligere, comprendere con chiarezza) tali desideri. Penetrarli, immedesimarvisi sino a farli propri. Non a torcere tali desideri e necessità entro propri schemi preconcetti, ma a comprenderli e condividerli per dar loro la soluzione migliore. L’edificio dovrà servire a rendere migliore la vita delle persone che lo abiteranno (che sia una casa o un ufficio, un negozio o un luogo di culto, ogni edificio è preposto ad ospitare, e quindi è votato a essere abitato, per quanto per occasioni e per periodi di tempo diversi).
Un’altra parte di tale servizio è rivolto alla comunità, all’insieme urbano in cui l’edificio si inserisce. Il nuovo nato dovrà servire a rendere migliore la vita di quel luogo e in quel luogo. Dovrà abbellire quella porzione di città, rallegrare la vista. Non dire “questo è l’edificio firmato dal progettista tal dei tali”, ma dire: “questo è un luogo dove è gradevole passare o sostare, questo è un brano di città, di questa città con tutte le sue valenze emotive e significanti”.
Christian Norberg Schulz ha ampiamente discusso l’argomento…
3 La chiesa e la trasfigurazione nella sequenza
Il senso della chiesa nella città. Non solo ospita la comunità celebrante ma la rappresenta, e rappresenta nel singolo sito la Chiesa universale. Si tratti di Chiesa Cattolica o Ortodossa, o di una delle tante denominazioni protestanti ( e lo stesso vale per qualsiasi tempio di altre religioni) il luogo di culto è memoria permanente di quel che sta al di fuori delle passioni e delle tendenze del momento.
Al riguardo si pone la domanda, se e in che misura l’architettura delle chiese debba essere influenzata dalle tendenze dell’epoca corrente. Ma è pur vero che dal basso medio evo la Chiesa occidentale ha scelto di parlare in forme artistiche secondo il linguaggio dell’epoca, quale segno di un vangelo che si incarna in ogni epoca e che non si limita a propagare una testimonianze relegata nella storia.
Queste due tendenze apparentemente in conflitto – vivere nel presente e testimoniare quanto supera il presente – dovranno vedersi assieme nel corpo delle chiese. E ovviamente come questo possa avvenire è questione delicata e problematica.
Se dopo il Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa esprimeva una sistemazione piuttosto ben definita, sia sul piano liturgico, sia sul piano architettonico, questo non è stato più vero, almeno non negli stessi termini, dopo il secondo Concilio Vaticano (1963-65).
In questo concilio la Chiesa ha scelto di dialogare a tutto campo con la cultura contemporanea, in questo cercando di interrompere il periodo di distacco che è seguito all’irrompere dell’illuminismo e della modernizzazione.
Si parla dunque anzitutto della presentazione esterna delle chiese: il modo in cui esse sono riconoscibili per tali. In che modo il loro volto divenga presenza significativa nella città.
Nel considerare l’architettura delle chiese, in realtà il percorso dovrebbe seguire un andamento opposto: partire dall’esame di quanto vi avviene all’interno per poi considerare in che modo questo sia trasmesso anche all’esterno.
Ma questo è l’approccio “liturgico” al tema architettura della chiesa.
L’approccio cui usualmente le persone si riferiscono è quello opposto: guardare la chiesa da fuori e considerare in che modo il loro apparire “dica” qualcosa di significativo nel contesto urbano.
Incidentalmente si consideri che si parla di contesto urbano, perché oggi più che mai il contesto è quasi sempre urbano. Vi sono chiesette rurali, e santuari oltre che monasteri con i relativi luoghi di culto, in contesti rurali. Ma si tratta di casi relativamente rari. E soprattutto di edifici di carattere prevalentemente storico. Le nuove edificazioni di carattere cultuale sono quasi tutte in contesti urbani, nell’ambito di un mondo in cui la popolazione vive in assoluta prevalenza in ambiti urbani o periurbani.
Dunque, come si distingue la chiesa nell’epoca contemporanea?
Il paradigma sedimentato è quello dell’edificio con tetto a falda con un rosone in facciata cui si accosta un campanile. Vi sono elementi che sono considerati caratteristici della chiesa: il campanile e il rosone: il tetto a due falde ovviamente appartiene alla stragrande maggioranza degli edifici storici.
Ma che questa immagine archetipica corrisponda all’essenza dell’edificio chiesa è semplicemente erroneo.
Basta considerare come la facciata di San Pietro in Vaticano sia di carattere palatino e, presa in sé, ben poco lascerebbe sospettare che sia il volto della chiesa cattolica più importante del mondo.
San Pietro ha la grande cupola che si erge sopra la zona dell’altare: qui è questo l’elemento qualificante. Per quanto in sé la cupola non sia elemento tipico della chiesa, nella storia è giunta a esservi efficacemente associato. Anche il nuovo Parlamento tedesco a Berlino è stato dotato di una grande cupola trasparente, ma questa non ne fa una chiesa.
Gli elementi architettonici in sé, o nel loro complesso, possono comporre un’immagine che si avvicini più o meno all’idea preconcetta di chiesa. Ma definire un assieme che sia univocamente espressivo della chiesa sarebbe impossibile. Tanto più nell’epoca della contaminazione tra stili e tendenze, qual è quella contemporanea.
Ecco dunque che si pone un problema più fondamentale: oltre al rapporto intrinseco tra gli elementi, quello del rapporto tra la singola architettura e il contesto. Ovvero, in che misura la sequenza architettonica diviene in sé eloquente ed esplicativa.
Nelle sequenze urbane vi sono espressioni significative. I viali sono caratterizzati da filari alberati e sono spesso inframmezzati da slarghi, le piazze, che ne ritmano la progressione, che peraltro si perde in visioni lontane che danno luogo a nuove sequenze, simili o diverse, nell’intrico delle strade.
La sequenza urbana che riconduce a una chiesa non può avere tale qualità, essa deve ricondurre al luogo definito della chiesa, che ne rappresenta il momento culmine, pur secondo un modo che va specificato e qualificato.
Un paragone potrebbe essere quello con le stazioni ferroviarie di transito o di testa. La sequenza urbana tipica è come una stazione di transito: i binari vi passano attraverso e proseguono il loro cammino. La sequenza urbana che riconduce alla chiesa è paragonabile alla ferrovia che si arresta nella stazione di testa: qui essa trova la sua conclusione; ovvero l’inizio di un altro camino, non più su ferrovia ma con altri mezzi.
Che vi siano altre sequenze urbane che si arrestano di fronte al palazzo che le domina è senz’altro vero. Si può pensare all’edificio eminente dell’amministrazione pubblica, quale per esempio è il Campidoglio a Roma, o il Campidoglio a Washington.
In entrambi questi casi, v’è un altro luogo caratterizzante che tali siti condividono con quelli tipici delle chiese: la piazza antistante. Che consente una cesura e una sottolineatura rispetto all’usuale transito urbano: un ripensamento e un modo per porre in rilievo la particolare eleganza e il particolare significato dell’architettura.
Nella chiesa il sagrato svolge proprio tale funzione: interrompere la sequenza urbana, dare un attimo di ripensamento, evidenziare il passaggio nello spazio “altro”, far risaltare eventualmente la facciata col suo specifico significato.
Ma il Campidoglio, sia a Roma o a Washington, per importante che sia, non è luogo di natura trascendente, non si tratta di un tempio, non di una chiesa. Che cosa distingue la sequenza urbana che porta alla chiesa da quella che porta a tali luoghi pur eminenti?
I due Campidogli che consideriamo come esempi sono luoghi “opachi”: veri e propri punti di arrivo, non si presentano come inizi di nuovi diversi cammini. Vi si arriva e se ne esce, secondo una routine amministrativa di grandissima rilevanza, ma pur sempre agìta nell’ambito del vivere consuetudinario.
Lo spazio della chiesa invece per sua natura è preposto ad aprire a uno spazio ulteriore, che è quello spirituale, trascendente, collegato alla religiosità, ovvero al dialogo tra l’essere umano e il divino.
Come si manifesta questo?
La pittura dello Sposalizio della Vergine di Raffaello fornisce un’immagine archetipica di tale contesto. Il tempio che si erge sullo sfondo dell’immagine è infatti bensì il luogo di arrivo del cammino che attraversa la spianata tra la scena in primo pianto e la gradonata sulla quale il tempio stesso sta. Ma è anche momento di ulteriore invito a procedere secondo cammini diversi: lo si nota sia nel convergere al di là di esso delle strisce che attraversano longitudinalmente il piazzale, che terminano ben oltre il luogo della chiesa; sia nella porta aperta del tempio stesso, che lascia intravedere un cielo azzurro come quello che sta in alto, in ciò indicando che pure lo spazio che sta al di là della chiesa è aperto e che la chiesa stessa è luogo che riconduce a tale spazio ulteriore.
Infine, la lanterna sopra la cupola “fora” il cielo del quadro, supera il suo margine superiore e al di là di questo entra nella dimensione altra, in quel che sta al di sopra dello spazio in cui si manifesta la scena.
Insomma nel dipinto Raffaello presenta uno spazio dinamico e aperto al trascendente, anzi: che indica la via del trascendente.
È possibile che un’architettura effettiva raggiunga identici obiettivi?
Certamente, se non il tempietto del Bramante in San Pietro in Vincoli, che è l’esatta riproduzione del disegno del tempio di Raffaello ma manca di un contesto che ne riveli l’animo, ovvero che lo renda eloquente, certamente la chiesa di San Biagio in Montepulciano riproduce proprio la sequenza indicata nel dipinto dello Sposalizio della Vergine. Pur se la chiesa del Sangallo è architettonicamente differente (per quanto sempre a pianta centrale) da quella presentata da Raffaello, l’insieme ambientale porta quella chiesa toscana a raffigurare nel modo più preciso l’ambientazione e il senso del quadro di Raffaello.
A San Biagio in effetti si attiva una sequenza di avvicinamento ben ritmato dal filare di cipressi, lo slargo del sagrato a fronte della presenza del tempio a pianta centrale, il maestoso ergersi di questo quasi a entrare nel cielo con la lanterna in cima, la prospettiva di natura e prato e cielo che l’attornia come a indicare che v’è ampio spazio attorno e dietro il tempio, di cui questo non è che porta di ingresso. Ingresso non in uno spazio chiuso, ma nello spazio dell’infinitudine.
Certamente è privilegiato il luogo della chiesa di San Biagio, ma la sensazione che attiva è recuperabile grazie alla sapienza architettonica in diversi altri contesti. Si tratta di trovare il modo di attivare la prospettiva lineare della sequenza in avvicinamento per poi tradurla in prospettiva trascendente che prende avvio proprio dall’edificio del tempio, che in tal modo diviene punto di arrivo e allo stesso tempo luogo di partenza di una logica diversa.
Citiamo diversi altri esempi in cui si attiva visibilmente tale sequenza che porta dalla linearità orizzontale alla trascendenza: non per indicare in essi modelli da seguire, ma per mostrare che è possibile per l’architettura di esperire anche ai nostri giorni la trasfigurazione della sequenza, necessaria per esprimere il luogo della chiesa.
Esempio 1: la chiesa di Riola di Vergato, progettata da Alvar Aalto.
Alvar Aalto ha progettato diverse chiese in Finlandia. Questa di Riola è l’unica chiesa cattolica da lui firmata ed è anche la sua ultima opera (fu inaugurata nel 1976, ma mancava ancora di campanile e del porticato). È stata completata alla metà degli anni Novanta del ‘900, ben dopo la sua morte, avvenuta nel 1976.
È anche opera inquadrabile nel contesto del gruppo bolognese di Chiesa & Quartiere, che fu voluto dal card. Lercaro per dotare i quartieri periferici di Bologna di nuovi edifici di culto. Aalto fu chiamato Bologna proprio dal gruppo di C&Q, per quanto la sua chiesa si costruì dopo che l’esperienza di C&Q si era già conclusa (il che avvenne nel 1968), la sua progettazione cominciò nel 1966, quando il gruppo era in piena attività.
La chiesa di Riola ha un profilo tipicamente da capannone industriale, eppure, a disdoro di coloro che insistono che le chiese contemporanee sono degli orribili capannoni industriali, è di grande bellezza.
Sino a quando dal ’93-’94 non sono stati costruiti il campanile e il porticato che unisce la chiesa ai vicini locali parrocchiali, si presentava veramente spoglia e quasi priva di significato, malgrado il fatto che gli appassionati di Aalto si sforzassero di attribuirvi un’eleganza che le manca totalmente.
Gli shed superiori guardano verso destra, dove scorre il fiume Reno. È tutta composta da elementi di fabbrica industriale, nessuno dei quali, campanile incluso, può dirsi depositario di bellezza o eleganza, né tanto meno di espressività.
Eppure presi assieme danno con chiarezza il senso dell’essere chiesa. E soprattutto l’elaborazione del volume, inserito in un fascio di rette che convergono lontane, ben oltre la parete di fondo, attivano in chi entra la percezione di essere portato a immaginare qualcosa che sta al di là di quanto è visibile all’interno. Si potrebbe dire che si tratta di un trucco architettonico, simile a quello che attuò Bramante nell’absidiola dietro l’altare di San Satiro in Milano: un’illusione ottica. Ma è più di questo. Si tratta dell’espressione architettonica dell’invito ad andare oltre, a non limitarsi allo spazio fisico visibile.
Ergo, il percorso che dal sagrato porta alla comunicazione di uno spazio che non si conclude nella parete di fondo, diviene espressivo della tensione verso l’alterità assoluta, che trascende la materialità del sito. E questo, senza alcun ornamento, orpello, senza alcuna elaborazione di tipo scultoreo o espressionista.
Il linguaggio dell’architettura, usato con sapienza è in grado di esprimersi in modo poetico consono alla chiesa, pur in assenza di ricerche formali che spesso risultano astruse e sovraccariche.
Esempio 2 la chiesa di Santa Vergine Assunta in Santi Gervaso e Protaso a Buccinasco (Milano) opera di Roberto Rizzini.
Si tratta di un edificio concepito un po’ come un un palazzetto dello sport e decisamente influenzato dall’architettura della chiesa di Firminy di Le Corbusier, pur essendo assai diversa da queste nelle dimensioni. Una base quadrata, una cuspide tondeggiante, un manto scuro. Simile al Golgota, nelle parole del progettista. La vecchia chiesa parrocchiale è poche decine di metri più avanti: non c’è bisogno di un campanile per questa nuova aula celebrativa. Vi si accede attraverso un breve porticato lineare: l’interno comunica sensazioni totalmente diverse.
Le aperture di luce strategicamente collocate illuminano l’altare con particolare intensità all’aurora e al mezzodì. La cupola all’interno offre un senso di raccoglimento e allo stesso tempo di “perdita delle dimensioni”. Nel passaggio tra lo spazio esterno e lo spazio interno si esperisce un autentico cambiamento: appare più libero e gioioso e luminoso lo spazio interno di quello esterno, pur essendo questo una piazza che attornia tutto il corpo della chiesa.
Al di fuori si può meglio meditare sulla sofferenza, al di dentro si può meglio intendere il senso della trasfigurazione e dell’elaborazione spirituale. Senza soluzione di continuità, il pavimento si eleva sul lato opposto a quello d’entrata per salire sino al livello di un matroneo, dal quale l’amplitudine dell’ambiente può meglio essere apprezzata.
E la base è “misurata” nella razionalità della geometria quadrata, nella parte apicale lo spazio si risolve nella etera volta sferoidale, in cui la dimensionalità si perde.
Anche in questo caso non sono necessarie ornamentazioni o segni, che al di là della croce, indichino la destinazione dell’edificio. L’architettura stessa, pur non affidata a una stella della progettazione, si esprime con chiarezza e immediatezza…
In entrambi gli esempi, ci troviamo di fronte ad architetture prive di facciata o di particolari elaborazioni esterne. L’elaborazione consiste nell’attivare la sequenza che dallo spazio esterno invita allo spazio interno e da questo va oltre. La dinamicità dello spazio diviene in sé un fatto eloquente.
Tra i tanti altri esempi capaci di esprimere simile percorso sequenziale, vi sono diverse chiese progettate da Mario Botta, per esempio il Santo Volto di Torino. La cui architettura sembra riprendere la macchinosità della città industriale, per trasfigurarla negli impulsi dinamici, orizzontale e verticale che si generano all’interno tra accesso e altare e tra base e spazi verticale.
Vi sono anche diverse chiese progettate da Gabetti e Isola , e dopo la morte del primo da Isolarchitetti, deliberatamente concepite senza facciata, ma intese quali luoghi che segnano un percorso le cui tappe fondamentali sono sempre il sagrato e lo spazio che da questo porta all’ambiente interno sempre ritmicamente segnato da elementi quali le aperture laterali e , pur nel generale disegno sempre improntato a quello della cascina o della casa rurale, diviene espressivo di un impulso che trascende lo spazio chiuso.
A differenza di Aalto e di Rizzini, Botta e Gabetti e Isola hanno di solito introdotto elementi artistici nelle loro chiese. Ma in ogni caso l’architettura stessa di queste è sempre sufficiente per accompagnare la significatività della sequenza.
Ultimo esempio, la chiesa di San Paolo a Foligno, opera di Massimiliano e Doriana Fuksas.
È stata forse la chiesa più criticata tra quelle contemporanee. Ed è stata anche una tra le prime che hanno vinto i concorsi “Progetti pilota” stabiliti dalla Conferenza Episcopale Italiana proprio per cercare di conferire qualità ai progetti di chiese contemporanee.
La chiesa di Foligno è criticata in quanto catafalco in cemento armato, priva di forma, inespressiva.
Tuttavia se la consideriamo dal punto di vista del percorso di avvicinamento, si nota anzitutto che il suo lungo sagrato è in leggero pendio accendente, talché l’avvicinarsi alla chiesa implica il salire. Che la sua pesante mole si apre in basso in una fenditura che appare piccola nella massa dell’edificio, ma è alta due metri e costituisce lo spazio di accesso alla chiesa. Data la pesantezza dell’insieme, nell’entrare la persona è portata a inchinarsi: v”è una demarcazione evidente e fisicamente ben sensibile del passaggio tra il fuori e il dentro.
All’interno il volume sospeso indica pur senza delimitarlo, un percorso perimetrale simile agli ambulacri delle antiche cattedrali gotiche mentre la luce maggiore è quella che spiove all’interno dello spazio dell’assemblea e sull’altare. Così che anche all’interno la gradualità ascendente che si percepiva all’esterno, diviene gradualità luministica nell’avvicinarsi all’altare. Gradualità nettamente demarcata dalla presenza di diverse soglie significative: non fisiche, non ostacoli, tuttavia soglie ben sensibili: la prima essendo la lunga soglia dell’ingresso, la seconda essendo quella che separa il camminamento perimetrale dallo spazio della chiesa era e propria, la terza essendo quella esclusivamente luminosa che evidenzia lo spazio per il culto dal resto.
In realtà gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Qui intendiamo limitarci a proporne alcuni in cui risulta evidente che la ricerca formale non è prevalente, ma prevalente è la ricerca architettonica e la ricerca di senso.
Non che la ricerca formale in sé sia da evitare: anch’essa può dare risultati significativi allo scopo di esprimere la chiesa come aggregazione di percorsi nell’ambito di una sequenza organizzata e finalizzata a esprimere il trascendente. Ma ove interviene la ricerca formale, è più facile che il senso della sequenza si perda, nell’ambizione a un’estetica scultorea che spesso tende più a parlare del facitore che ad accompagnare il fedele a porsi a confronto col mistero.
4 I momenti previ
Tra i tanti elementi architettonici che compongono la chiesa, il primo, a considerare l’architettura dall’esterno, è il sagrato.
Come dice il nome, luogo dedicato alla chiesa, ma aperto alla città. Va definito: altro è una piazza o uno spiazzo, altro un sagrato.
Basti considerare la differenza tra la piazza di San Giovanni in Laterano a Roma
e piazza San Pietro in Vaticano.
Il primo è uno spiazzo relativamente anonimo, che non valorizza la presenza della facciata della chiesa, che è pur luogo eminente, fu sede del papa e che resta sede del vicariato della città. Ma non v’è un’elaborazione architettonica: è solo uno spiazzo aperto in cui si raccolgono a volte assemblee moltitudinarie, e in cui prevale l’incombere del traffico automobilistico. La grande piazza minimizza lo spazio previo di pertinenza della chiesa, lo cancella.
Piazza San Pietro, di contro, ha un disegno definito: ha un carattere suo di piazza che acquista sapore sacro in relazione con la vicina basilica. Ma la piazza di per sé ha un valore chiaro e netto. Il colonnato del Bernini lo esalta e genera un raccordo decisamente incardinato sulla basilica. Ma anche senza il colonnato la piazza avrebbe un suo disegno: la pianta a doppio lobo circolare col tappeto mediano in asse con la facciata della basilica. La presenza dell’obelisco e della fontana nei due fuochi della figura geometrica esaltano il disegno della piazza.
Il sagrato storico è spesso sopraelevato di qualche gradino rispetto alla piazza antistante.
Vi si svolgevano sacre rappresentazioni, vi si trovavano le sepolture e nelle chiese nordiche ancora vi sono aree circostanti le chiese in cui vi sono sepolture; la principale cerimonia che vi ha luogo è quella dell’accensione del cero pasquale. Nell’occasione di celebrazioni di matrimoni, funerali, cresime e battesimi, diviene luogo privilegiato per dialoghi tra fedeli. Del resto questo avviene ovviamente in relazione a qualsiasi celebrazione.
Ma qui poniamo l’accento sul fatto che il sagrato è spazio previo e coordinato, sul piano visivo e fruitivo fa parte della chiesa e della città allo stesso tempo.
Soprattutto il sagrato segna la prima soglia per chi si avvicina al luogo di culto. Ergo, la sua presenza, i suoi “confini” vanno indicati in qualche modo. Ma evitando di proporlo come luogo chiuso, ovvero esclusivo (come purtroppo oggi avviene col recentissimo sagrato della chiesa Dives in Misericordia eretta a Roma nell’occasione del Grande Giubileo del 2000, inaugurata nel 2004, su progetto di Richard Meier).
Il sagrato si propone come luogo sacro ma aperto. Aperto alle persone: accade spesso che sagrati contemporanei divengano parcheggi per chi si reca alle celebrazioni in automobile o per chi porta al centro parrocchiale i ragazzi. La presenza di mezzi di trasporto parcheggiati toglie il valore di segno al luogo.
Vi sono chiese storiche prive di sagrato: dal marciapiedi si accede direttamente alla chiesa. Si tratta di condizioni che vanno evitate o vanno ripensate. Precisamente a causa dell’invadenza dei mezzi di trasporto meccanici, è importante trovare ovunque a fronte della chiesa, sia essa storica o contemporanea, un luogo, piccolo o grande che sia, che “dica” del passaggio.
Un esempio significativo di sagrato di ridotte dimensioni, al punto da confondersi con pronao o col nartece, è quello della chiesa eretta a Desio alla fine degli anni ’90 del ‘900, su progetto di Gabetti e Isola.
Qui v’è una struttura a campanile a pianta tondeggiante e troneggiante, eminente a fronte della chiesa, delimitata da un’ampia corona di colonne. Uno spazio che è interno ed esterno allo stesso tempo. Un sagratello. Significativo: la sua presenza, grazie al troneggiare della struttura che regge le campane e che funge da torretta-simbolo del luogo di culto, irraggia sull’intorno tanto da far sì che la piazza tutta sia percepita come funzionale al luogo per il culto. È uno spazio che si presenta come calamita: attivatore di un campo di energia centripeto.
Vi sono altre condizioni, come la chiesa di Baruccana progettata da Gregotti International, in cui il sagrato è un luogo attraversato da percorsi che stabiliscono una prospettiva focalizzata nel luogo della chiesa. Qui lo spazio è dinamico, segnato da cammini rettilinei che riconducono all’ingresso in chiesa.
Nel santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, progettato da Renzo Piano, il sagrato è probabilmente la parte meglio riuscita: la differenza di livello rispetto alla vallata dalla quale si arriva al sito ha offerto l’occasione per disegnare diversi percorsi di accesso tra i quali il più significativo è la salita porticata che porta al piano del sagrato da parte opposta a quella ove sorge la chiesa. Il campanile “lineare” che delimita il sagrato verso valle diviene luogo di raccordo tra il punto di arrivo della salita e la chiesa. Mentre sul lato opposto, verso monte, la spianata in leggera discesa è accompagnata da alcuni ulivi e da una fontana a cascatelle, dal forte valore simbolico. Nel complesso un sagrato di grande valore segnico, accogliente, sereno, invitante.
Nella storia vi sono tanti sagrati raccordati a un portico, a volte un quadriportico che lo definisce totalmente. L’antico San Pietro in Vaticano era dotato di un sagrato di tal fatta, come lo è tutt’ora Sant’Ambrogio a Milano. Il quadriportico è struttura che può dare l’idea di chiusura. Ma in realtà essendo definito da un colonnato è per solito “trasparente”. Anche se in antichità forse la sua struttura “separante” aveva qualcosa a che vedere col fatto che nei primi secoli ancora il cristianesimo si sentiva “separato” dal resto della società. Per converso, nell’epoca tardo antica e nelle epoche successive l’affermarsi del cristianesimo come fattore portante di tutto l’ambiente culturale e politico fa sì che non si percepisca più come necessaria una definizione così greve del sagrato: questa almeno l’opinione dello storico dell’architettura Sandro Benedetti. Il quale peraltro ha progettato negli anni ’90 alcune chiese dotate di quadriportico, proprio per il valore segnico di questa struttura.
Il portico, nelle sue diverse declinazioni e specializzazioni (protiro, pronao, nartece) rappresenta un grado più avanzato della funzione di separazione-congiunzione attivata dal sagrato tra città e chiesa. Nella tradizione i catecumeni stavano nel nartece durante la prima parte della Messa (liturgia della parola) e non prendevano parte alla liturgia eucaristica. In tal modo questo spazio previo era rivestito di un forte valore semantico.
Oggi la distanza tra “città” delle attività profane e chiesa è tornata a essere cospicua, per cui la successione di sagrato-pronao (nartece, portico o protiro che sia), diviene ancora più rilavante di quanto non fosse in passato, così che il percorso di avvicinamento abbia la capacità di invitare alla riflessione sulla rilevanza dei passi compiuti.
E assai rilevante al riguardo è la variazione luministica che avviene nel passaggio attraverso il porticato-nartece. Un abbassarsi dei valori luministici rispetto allo spazio esterno equivale all’affermazione del silenzio e del raccoglimento: laddove la luce piena implica spazio pubblico, “pubblicità”, le relazioni che si attivano nel volgersi alla chiesa sono improntate bensì all’essere nella comunità, ma nella coscienza condivisa della comune condizione di figli di un unico Padre e pertanto fratelli. Un condizione che richiede uno stacco di ripensamento rispetto al luogo della onnipresente “pubblicità” (che oggi assume non solo il senso dell’esser pubblico, ma soprattutto il senso della propaganda), tanto maggiore oggi quando la piazza è divenuta onnicomprensiva e priva di confini nello spazio virtuale telematico.
Un porticato di particolare valore segnico si ritrova nella chiesa Beato Odorico da Pordenone, a Pordenone, progettata da Mario Botta e realizzata a metà degli anni ’90. Le grandi colonne rotonde reggono una travatura quadrangolare che si raccorda col corpo della chiesa a tronco conico. Lo spiazzo racchiuso dal colonnato è liberamente accessibile e totalmente trasparente, e tuttavia separato e diverso dallo spazio circostante. Al suo interno una traccia sinusiodale raccoglie l’acqua che all’interno della chiesa sgorga nello spazio battesimale, in tal modo raccordando sagrato e interno della chiesa.
Terzo elemento rilevante è la facciata. Vero e proprio costrutto architettonico dotato di una possibile indipendenza rispetto al resto dell’organismo della fabbrica. La facciata è composta da tutti gli elementi che la chiesa presenta al proprio esterno e che esprimono in qualche modo quanto la chiesa contiene. E tali elementi sono aggruppati nel muro che segna il “di qua” e il “di là” dello spazio ecclesiastico.
Vi sono chiese, come San Francesco al Fopponino a Milano (opera di Gio Ponti) in cui la facciata è veropropriamente organismo a sé stante. Anche la concattedrale di Taranto, di Gio Ponti ha un elemento mediano che si eleva come una facciata superiore a sé stante, che diviene segno della presenza della chiesa, tanto quanto lo potrebbe essere un campanile.
Vi sono architetti che hanno dato un valore assoluto, predominante alla facciata, tra questi Augusto Romano Burelli che a Gemona ha costruito la chiesa di S. Lucia tutta raccolta attorno alla sua facciata: un importante muro che prospetta sulla piazza, nel cui punto mediano avanza un’absidiola che raccoglie lo spazio dell’altare. Talché tutta la chiesa risulta “raccontata” nella sua facciata. E chi vi accede passa dalle porte laterali per descrivere un percorso semicircolare che lo porta a trovarsi a fronte dell’altare.
Uno schema identico ha seguito, più o meno negli stessi anni, Justus Dahinden per la chiesa San Massimiliano Kolbe di Varese: ma qui non è una vera e propria facciata, in quanto Dahinden privilegia lo spazio introverso. Un’architettura a semisfera bianca tagliata da una parete in cemento modulato per evidenziare l’abside che resta ben visibile a chi accede al sagratello ai lati del quale si trovano gli accessi.
La facciata di per sé non è necessaria. Vi sono alcuni, come Gabetti e Isola che decisamente la evitano in tutte le loro chiese, privilegiando il volume della chiesa come elemento significativo nel suo complesso articolato negli spazi previ e nei percorsi.
Ma la porta è sempre rilevante, sia che vi sia, sia che non vi sia una facciata. Inscritta nel portale ogivale nelle grandi chiese gotiche, pur ove sia meno augusta nella sua elaborazione, mantiene il valore di soglia principale. A evidenziarne il valore concorre tutto lo spazio previo e tutto quanto la circonda. Sia porta principale o secondaria, sia inscritta in una facciata o no, la porta segna la soglia principale. Non è un elemento in sé: la porta ha un valore che è sempre determinato dal complesso di elementi che la circondano: e ovviamente può essere esaltata da un’elaborazione artistica o artigianale particolare, dalla presenza di una struttura circostante rilevante.
Ma la porta è il luogo cui tutto lo spazio previo deve ricondurre, attraverso il linguaggio dei segni, degli accenni, degli inviti, dei rimandi, della prospettiva.
V’è una chiesa a Monaco di Baviera, in cui gli architetti hanno scelto di fare di tutta la facciata un’enorme porta semitrasparente e apribile. Herz Jesu Kirche di Allman Sattler Wappner (1997-2000). V’è naturalmente una porta più piccola che si usa correntemente, ma tutta la facciata può essere aperta: è un segno, come è un segno il fatto che la trama strutturale in acciaio che regge i vetri reca incisi i vangeli agli incroci: nessuno li legge, ma si sa che ci sono. Sono segni. Come lo sono le stature retti dai pinnacoli delle chiese gotiche: nessuno le riesce veramente a vedere, ma si sa che ci sono. Sono un segno. Lo stesso dicasi per moltissime vetrate istoriate: le immagini non si vedono veramente, ma si sa che ci sono. Sono una presenza che diviene segno.
La porta è il segno al quale tutto il resto dello spazio previo riconduce. Va pensata in modo coordinato con tutto l’insieme del percorso di accesso, come la cesura fondamentale , il momento portante, il luogo perno di tale processo di accesso.
Intesa come segno, luogo, limite significativo, la porta non è paragonabile alla linea che delimita una figura geometrica: nella ricerca della precisione geometrica, di quest’ultima ha senso chiedere se lo spessore della linea stessa faccia parte della superficie interna o esterna alla figura stessa. La porta, il limite che demarca l’ingresso nello spazio per il culto, ha una presenza cospicua: il suo valore di limite viene esperito attraverso il discreto periodo in cui avviene il passaggio dal mondo esterno al mondo interno.
La persona che incede vede la chiesa intera come espressione di un luogo distinto dagli altri: non legato a funzionalità utilitaristiche, bensì votato all’intimità spirituale, del singolo e della comunità.
Se la persona è totalmente estranea alla chiesa, di questa potrà apprezzare il valore storico, artistico, o comunque di differenza e alterità rispetto a quanto la circonda. Nell’avvicinarsi, i diversi segni che le si presentano, saranno coordinati in modo tale da completare tale percezione.
E si parla di segni in senso lato: non solo visivi, ma anche uditivi (v. il suono delle campane, la melodia delle preghiere cantate in specifiche occasioni), olfattivi (v. i profumi di incenso o di fiori), termici (la massa delle murature degli edifici storici garantisce di per sé un controllo termico interno che offre frescure nel periodo estivo, tepore in quello invernale, ed è auspicabile che usando i vari sistemi per il controllo termico offerti dalla bioedilizia anche gli edifici di culto attuali garantiscano simili prestazioni).
Il passaggio nella porta non dev’essere “semplice”, perché la semplicità lineare tende a togliere valore al passaggio stesso.
Se per esempio il passaggio implica un momento di particolare oscurità, nell’accedere nello spazio interiore, seppure più oscuro di quello esterno, si esperirà il senso della novità, dell’allargarsi dell’orizzonte, del recupero della luce e della sua focalizzazione sui poli rilevanti sul piano liturgico.
In alcune circostanze l’effetto può essere ottenuto con porte poste in senso ortogonale o comunque angolato rispetto alla direzione di avvicinamento, talché avvenga un cambio di direzione, una rotazione che porti chi incede ad acquisire differenti viste prospettiche, delle quali quella che si aprirà all’interno sarà particolarmente libera e felice. Ovviamente questa soluzione avviene in modo necessario ove l’ingresso è posto non in asse con l’altare, ovvero col centro focale della chiesa, bensì là dove è posto lateralmente, cosicché chi entra necessariamente deve compiere una rotazione.
In ogni caso la porta non è un semplice elemento separatore, bensì è inteso come momento cardine di una sequenza che nel suo complesso dà significato all’insieme del percorso.
5. Lo spazio interiore, prima progressione
Lo spazio interiore a sua volta è uno spazio dinamico, ed è dominato dall’organizzazione liturgica. Si tratta di uno spazio dotato di capacità catechetica: infatti ogni suo aspetto e ogni suo elemento ha valore significante, quale memoria della storia del cristianesimo, quale attivo momento di espressione del culto, quale deposito di fede, o quale manifestazione della carità che il Creatore riserva al creato.
Qui ci riferiamo ad alcuni aspetti architettonici e rimandiamo a testi di liturgia per una più appropriata esposizione dei significati dell’organizzazione dello spazio interno, in particolare alle note pastorali della Conferenza Episcopale Italiana sulla Costruzione di nuove chiese (del 1993) e sull’Adeguamento delle chiese esistenti (del 1996).
Riguardo al problema della dinamicità entro le chiese contemporanee, un problema importante deriva dall’uso di riempirle di sedute, che offre l’idea che si tratti di uno spazio di tipo teatrale e statico. Nel medio evo stalli e sedute erano riservate al coro di chierici, monaci, a coloro che presiedevano alla celebrazione, mentre i fedeli restavano in piedi (o si inginocchiavano) sulla pavimentazione libera della navata. Le sedute per il popolo furono introdotte in epoca post tridentina avanzata. Oggi tendono a occupare tutto lo spazio delle chiese, e quindi a “bloccarlo”: va da sé che per coloro per i quali restare a lungo in piedi è fatica improba o per i quali inginocchiarsi al suolo è impossibile, i banchi sono necessari al fine di essere liberi di partecipare al culto. Ecco che dunque avrebbe senso pensare alle disposizioni di banchi e sedute (le sedie sono più dinamiche: consentono che le disposizioni assembleari non siano bloccate) in modo tale da soddisfare alle necessità di coloro che per vari motivi non possono evitarli, anziché disporli come veicolo principale per la partecipazione liturgica: in pratica si potrebbe pensare di disporne in quantità minore e solo in certi settori, lasciando spazi più ampi per coloro che possono seguire le celebrazioni in piedi. In questo modo resterebbe meglio evidenziato l’aspetto dinamico dello spazio liturgico. Dinamico perché la liturgia consta di movimenti e di tensioni.
In ogni caso, nel progettare la chiesa è bene pensarla come spazio in cui la libertà di movimento sia non ostacolata da sedute, bensì orientata dalla disposizione dei poli liturgici, per arrivare solo alla fine del progetto a pensare all’eventuale disposizione di sedute.
Nel corso del progetto occorre piuttosto pensare al rapporto tra poli liturgici e popolo, e al rapporto tra i diversi poli liturgici tra loro.
Lo spazio interno di una chiesa è composto da una serie di luoghi diversi, organizzati in modo gerarchico e sequenziale che nel suo complesso dovrebbe in prevalenza offrire l’immagine di una proiezione verso l’altare, quale luogo di convergenza tra l’umano e il trascendente: dove “Homo factus est Deo” e “Deo factus est homo” (cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 3a, 16,7). Fatto che viene celebrato nell’Eucaristia.
Ancora, senza con questo supporre di poter esaurire un tema di vastissima portata storica liturgica, in via di sintesi indichiamo i luoghi che scandiscono la dinamicità dello spazio interno della chiesa: il battistero, il luogo della riconciliazione, i luoghi della proclamazione della parola (ambone e leggio), la sede del presidente (e la cattedra nelle chiese cattedrali), l’altare, la custodia eucaristica.
Di tutti questi luoghi si trovano esempi storici di alto valore artistico. Il che non vuol dire che sia necessaria l’opera artistica, anzi a volta l’arte può sovrapporsi al senso del luogo. Che va ricercato anzitutto nella sua collocazione entro la logica prossemica e processuale.
Il battistero è luogo dell’iniziazione cristiana e pertanto resta come sua memoria. Com’è noto nelle chiese storiche spesso era esterno alla chiesa. Ove sia interno, dovrebbe mantenere il senso di luogo di inizio di un percorso. E va raccordato, come tutti gli altri poli liturgici, all’altare. Vi si trova per eccellenza l’acqua, segno di purificazione.
Il luogo della riconciliazione esprime il rilancio di un cammino dopo la caduta: anch’esso va inteso come luogo previo all’esercizio della celebrazione eucaristica e quindi marginale rispetto a questa.
L’ambone è il luogo dal quale si proclamano le letture: per tradizione elevato così da evidenziare la nobiltà della parola proclamata e aiutarne la propagazione. Il rischio oggi è che si riduca a un semplice leggio, che svaluta il peso delle letture nell’economia della celebrazione. Si trova in prossimità dell’altare.
La sede del presidente è anch’essa in prossimità dell’altare, si richiede che non si sovrapponga a questo con una disposizione assiale, ma che resti defilata così che l’altare resti protagonista dello spazio e la sede sia “attorno” o “accanto” all’altare, in posizione visibile , ma non eccessivamente distinta dalla collocazione dei fedeli.
L’altare è centro focale dello spazio per la celebrazione. Come tutti gli altri poli liturgici, attivo durante le celebrazioni, resta al di fuori di queste come memoria delle stesse. Tutto lo spazio della chiesa trova qui la sua ricapitolazione: la celebrazione eucaristica è momento fondante della Chiesa stessa e racchiude la sua tradizione nella storia.
La custodia eucaristica è scrigno ove si conservano le specie consacrate. In epoca post tridentina spesso appare come grande monumento dominante tutto lo spazio dell’aula e in asse con l’altare, il quale in quell’epoca è addossato alla parete di fondo.
Oggi si richiede che l’altare quale luogo principe dell’azione liturgica sia il centro attivo dello spazio e la custodia resti a questo collegata ma non sovrapposta.
A questi luoghi liturgici si accostano i tanti segni che hanno anche un senso specifico nell’ambito della liturgia.
Il crocifisso: correlativo all’altare, è il segno più evidente dell’appartenenza del luogo.
Il cero pasquale, i ceri, le lampade, le candele: la tematica della luce intesa come espressione della vita spirituale è presente in tutte le scritture. E nello spazio della chiesa le candele simboleggiano tale tematica in vario modo a seconda della loro posizione e fattura. Sono gesto devozionale accanto alle immagini della Vergine o dei Santi patroni; ardono sull’altare nell’ambito della celebrazione eucaristica. Un cero arde sempre accanto al tabernacolo se in questo sono contenute le specie consacrate.
La Via Crucis: il seguito di immagini che ricordano il cammino della passione di Gesù.
La statua della Vergine e la statua del santo patrono (titolare della chiesa): sono le due presenze scultoree previste per le chiese contemporanee. La prima ricorda l’origine dell’umanità di Gesù; la seconda focalizza la figura del santo cui la chiesa è dedicata.
Le vetrate, delle quali la più rilevante è il rosone. Recano impresse immagini significative per la storia della chiesa e della liturgia, momenti della vita di Gesù. Le vetrate sono le principali fonte di luce delle chiese. Dato che la luce è segno divino, le vetrate divengono segno, non semplice luogo di passaggio della luce. Per questo vanno strategicamente collocate. Nella tradizione, la cui rilevanza è stata sottolineata da Joseph Ratzinger (“Introduzione allo spirito della liturgia”, 2001) le chiese erano orientate: rivolte con l’abside verso oriente, così che le vetrate absidali proiettassero verso l’altare e il popolo celebrante la luce del primo mattino.
Nelle chiese contemporanee, le aperture di luce a volte sono studiate perché in specifiche ore del giorno la luce solare illumini l’altare (v. S. Massimiliano Kolbe a Bergamo, progetto Gregotti International).
Vi sono casi in cui le vetrate giungono a rivestire il complesso dello spazio liturgico e a scandire con variazioni cromatiche i diversi loghi liturgici: questo è il caso in particolare delle chiese progettate dall’artista Costantino Ruggeri con l’arch. Luigi Leoni.
In ogni caso la luce solare nella chiesa è intesa quel veicolo che simboleggia l’accordo tra creato e Creatore, tra cosmo e singolo luogo. Non hanno quindi solo il valore funzionale: far passare aria e luce. Al contrario, prevalente su tale valore è quello simbolico, ovvero di collegamento tra il singolo luogo e la complessità cosmica.
Le lampade elettriche secondo tale logica si studiano come prolungamento dell’illuminazione solare nelle ore notturne, e in ogni caso tenendo conto delle priorità liturgiche.
Al riguardo significativa è la scelta compiuta da Alvaro Siza per la chiesa di Marco di Canavezes in Portogallo: l’illuminazione elettrica è data da lampade poste all’esterno dell’edificio, così che siano sempre le finestre a mediare l’arrivo della luce all’interno.
Quando si parla di chiese è difficile trovare il termine “atmosfera”, riferito al complesso delle sensazioni elicitate dall’estetica del sito. Eppure l’organizzazione architettonica della chiesa, oltre a rispettare la strutturazione gerarchica della liturgia, è chiamata proprio a disegnare un’atmosfera che sia appropriata per il luogo.
Di qui la necessità di consentire una autentica focalizzazione sull’altare senza perdere attenzione per gli altri luoghi ed elementi che concorrono a definire l’insieme dello spazio.
6 La forma
È difficile parlare di forma della chiesa, sia essa contemporanea o storica. Perché, invece di forma, la chiesa è un luogo, uno spazio complesso e coordinato. Le chiese non sono mai architetture singole, isolate. Sono accompagnate da strutture di raccordo con la città e da momenti dedicati all’accoglienza. E anche ove siano singoli edifici esclusivamente dedicati al culto, sono luoghi di comunità e per conseguenza sono da vedersi come luoghi intimamente raccordati a quanto li attornia.
Già nelle prime domus ecclesiae si trovavano diversi ambienti preposti alle diverse funzioni collegate al culto: se la celebrazione aveva luogo nella sala nobile, v’erano altri ambienti per l’esercizio della carità, per esempio la distribuzione di generi di prima necessità ai bisognosi; la sala per il battesimo; la catechesi; la residenza….
Del pari, nei centri parrocchiali attuali sono molteplici gli spazi dedicati ad attività non estranee a quelle del culto, ma neppure con questo coincidenti (v. per esempio, la catechesi, l’educazione, la biblioteca, la segreteria; le residenze ecc.).
Tuttavia, per quanto sia parte di un complesso più vasto, la chiesa dovrebbe distinguersi come elemento centrale nel complesso.
Se nel passato tale distinzione era netta anche grazie alla sovrabbondanza dimensionale, oggi la chiesa resta comunque di dimensioni ridotte rispetto all’intorno urbano: la distinzione va ricercata allora nell’ordine, nella limpidezza, nel lindore dell’insieme.
Nella storia le chiese hanno andamento basilicale o centrale. La scelta della disposizione va studiata in rapporto al sito e alle persone della comunità.
A conclusione di queste note introduttive infatti va richiamato il tema del dialogo quale elemento portante del progetto.
Attraverso la chiesa si tratta di svolgere un’opera di servizio per la comunità cui la chiesa è destinata. Una volta che questo sia chiaro, il progettista e la comunità si troveranno nelle migliori condizioni per dialogare.
E perché il dialogo sia proficuo, è importante che parta da un’idea progettuale che va tratteggiata dall’architetto, cui spetta pertanto di scegliere l’idea basilare, che sarà poi discussa ed elaborata con i rappresentati della comunità. E tenendo conto che se la chiesa rappresenta la comunità nel suo essere attuale, resterà, o dovrebbe restare, nel tempo ben al di là del periodo attuale.
Per conseguenza la chiesa va pensata come un processo in divenire, aperta agli aggiornamenti futuri mentre fondamentale sarà comunque la precisione dell’esecuzione, tale da rendere un manufatto non delicato ed effimero, ma in cui la manutenzione sia facilitata dalla qualità della scelta delle tecniche e dei materiali, oltre che dell’esecuzione. Quindi meglio scegliere le soluzioni tecnologiche sperimentate nel tempo e non rincorrere le novità come se fossero soluzioni definitive, quando usualmente le tecniche nuove richiedono decenni di sperimentazione prima di giungere a maturazione.
La chiesa non sarà luogo di sperimentazione, bensì di esecuzione che, sia sul piano formale, sia sul piano tecnologico, adotti le soluzioni meglio sperimentate e sedimentate, così che la sua gestione nel tempo non risulti onerosa per la comunità. La scelta della semplicità e dell’efficienza strutturale consentirà anche di eseguire architetture ben radicate e per conseguenza ben riconoscibili.
Uno dei motivi per il quale Mario Botta risulta essere tra i più prolifici progettisti di chiese contemporanee, è la semplicità del suo progettare, che si rifà a forme geometriche archetipiche e in quanto tali, seppure nuove, già sedimentate nella coscienza, e inoltre sceglie trattamenti di superficie (mattoni o pietre) che sono sperimentati nei secoli.
Che cosa può ricavare il progettista contemporaneo dall’analisi dell’architettura delle chiese nei nostri giorni?
Il significato, il senso e la profondità delle architetture per il culto e dei loro elementi non deriva da soluzioni che sul piano tecnologico o formale risultino particolarmente avanzate. Risulta bensì dalla continuità e contiguità tra le soluzioni attuali e quelle seguite nell’evoluzione storica.
I singoli elementi nel contesto architettonico acquistano un senso nella misura in cui partecipano a esprimere il senso della finalità generale dell’opera.
L’architettura richiede di essere attraversata e nel processo di attraversamento è chiamata a parlare alle persone. Nel luogo di culto le persone si aspettano un senso di carattere simbolico, ovvero che architettura e le sue parti riconducano a un mondo trascendente.
Ma tale trascendenza fa parte dell’essere umano, che è “religioso” nella sua essenza costituente.
Perché dunque non progettare qualsiasi luogo come se fosse un luogo per il culto, ove ogni elemento contribuisca a ispirare un sentimento religioso, in questo collegandosi al sentire più alto, ai sentimenti più profondi che albergano nelle persone – siano esse credenti o no?
Alcuni suggerimenti biblio-sito-grafici
Nobile semplicità
AA. VV. Atti dell’XI Convegno liturgico internazionale “Il concilio Vaticano II. Liturgia, architettura, arte”. Bose, 30 maggio-1° giugno 2013
ISBN 978-88-8227-422-1 2014, pp. 310 – Ed Qiqajon
Lo spirito dell’architettura
di David Banon e Déborah Derhy
ISBN 978-88-8227-423-8 2014, pp. 159 – Ed Qiqajon
L’architettura delle chiese in Italia
di Giancarlo Santi
ISBN 978-88-8227-361-3 2012, pp. 138 – Ed Qiqajon
Chiesa e città
AA.VV. Atti del VII Convegno liturgico internazionale. Bose, 4-6 giugno 2009
ISBN 978-88-8227-310-1 2010, pp. 288 – Ed Qiqajon
L’altare
AA.VV. Atti del II Convegno liturgico internazionale. Bose, 31 ottobre-2 novembre 2003
ISBN 978-88-8227-180-0 2005, pp. 288 – Ed Qiqajon
Giovanni Michelucci e la Chiesa italiana
Stefano Sodi (a cura di)
pp. 198 — Ed San Paolo (2009)
Amate l’architettura
di Gio Ponti
pp. 303 – Ed Rizzoli, 2008
La poetica dello spazio
di Gaston Bachelard
pp. 276 – Ed Dedalo (2006)
Il genius loci cristiano
di Frédéric Debuyst
pp. 120 – Ed Sinai (2000)
Lo spirito della liturgia – I santi segni
di Romano Guardini
pp. 208 – Ed Morcelliana (1996)
Dizionario dei simboli
di Mircea Eliade
pp. 480 – Ed Jaca Book (2017)
Possa confrontarmi con voi quanto prima per discutere e sviluppare in collaborazione la definizione progettuale dell’architettura pronta a proporre la mia testimonianza deducibilmente tradotta nel linguaggio caratteristico, la “ChiesAuovo” (cfr. Facebook), edificio destinato al culto caratterizzato da forme deducibilmente riconducibili a quelle di metà volume ovoidale coricato al suolo, architettura assolutamente pronta a stimolare la coscienza di vita dei fratelli tutti ora e sempre, vicino e lontano, architettura capace di offrire ad ognuno l’opportunità di riconoscere il perché massimo della vita distinguendo lo stesso assolutamente corrispondente a quello sempre proposto dalla fede cattolica ‘ OCCASIONE DI VITA INTERPRETATA IN CONDIZIONI FISICHE, IL COSIDDETTO QUI ED ORA, NON SEMPLICEMENTE FINE A SE STESSA MA CORRISPONDENTE ALLA GESTAZIONE DELLA VITA ULTRATERRENA IMPERITURA, ALL’OPPORTUNITÀ DI IMPREZIOSIRE LA VITA ETERNA POST-MORTEM SEMPRE PROPOSTA DAL CREDO CATTOLICA, VITA CHE SARÀ VITA DI LIVELLO ANCORA ULTERIORE, VITA VERA, ALLA FINE DEI TEMPI.
Chiedo di potermi confrontare personalmente con voi quanto prima per discutere e sviluppare concretamente la definizione progettuale dell’architettura indicata.
Saluto chiedendo ed attendendo di ricevere risposta/invito quanto più pronti, chiedendo a Dio di potermi confrontare con voi quanto prima.
Arch. Levorin Sergio, giovane uomo (C.F.: LVRSRG78P15C665N) caratterizzato da un’esperienza di vita miracolosa residente a Chivasso (TO) fratello del Rinnovamento Nello Spirito Santo che si incontra nella città di residenza, tel. 3470516402