Capitolo 4

Recentemente sono tornato all’Abbazia di Farneta in Val di Chiana a pochi chilometri da Cortona dove abito. Ebbene l’antica cripta tricora del primitivo organismo preromanico, ancorché segnata e ferita da mille anni di devastazioni e usi impropri, mantiene nella sua apparente semplicità un formidabile valore mistico. Tutto è assolutamente progettato e voluto, nulla lasciato all’interpretazione. Le absidi sono rivolte a oriente in maniera da far illuminare coi primi raggi del sole direttamente l’altare, ma soprattutto perché i fedeli, quando pregano, devono essere rivolti verso il sole, simbolo e figura di Dio. L’abside così illuminata – proprio dalla sua etimologia – è tonda e accogliente e se ne perdono i suoi limiti fisici. Tutto è molto sobrio, semplice e disadorno. L’organismo architettonico fa pensare alla precisa volontà di contenere uno spazio più che celebrare un luogo. Un concetto primitivo, ma a mio avviso, molto giusto e più vicino alla funzione liturgica che al rito. Sono queste le suggestioni che guidano le mie scelte quando progetto gli arredi sacri di un luogo di culto.

Nel mio incarico non era prevista la riprogettazione della mensa della chiesa dell’Adorazione delle Suore Sacramentine a Bergamo. Stavo illustrando le linee guida del progetto per il museo dedicato alla Santa Gertrude Comensoli a suor Germana, Madre Generale, e a suor Tiziana, l’economa dell’istituto; nel farlo è emerso evidente quello che è il mio principale interesse nel mio lavoro di architetto e cioè riuscire, attraverso i miei progetti, a creare le condizioni e le occasioni perché le cose accadano. Improvvisamente entrambe si sono guardate e nell’accompagnarmi verso la loro chiesa, interna al convento, mi hanno espresso la loro insoddisfazione nei confronti del monumentale altare in marmo bianco che fu loro imposto a seguito della riforma del Concilio Vaticano II. Effettivamente la nobile e eburnea materia (tuttavia estranea al luogo) e le dimensioni, decisamente fuori scala, risultavano quasi imbarazzanti non solo nel contesto fisico della chiesa, ma soprattutto nei confronti di quella delicata e al contempo severa dedizione all’adorazione del Sacramento di queste dolcissime ancelle di Dio. Le Adoratrici, a turno, due alla volta, sono costantemente inginocchiate nell’area presbiterale.

Suore Sacramentina di Bergamo. La chiesa per l’Adorazione prima dell’intervento.

Altare e ambone oltre che non relazionarsi per forme e materiale alla chiesa neobarocca voluta già dalla Comensoli, in grande evidenza non tenevano in nessun conto di quello che le sorelle Sacramentine fanno e pensano nella loro chiesa.

Fu lì che mi chiesero di studiare un nuovo altare della Chiesa per l’Adorazione perché fosse in maggior sintonia con le proporzioni dell’edificio e più funzionale allo svolgimento dei riti.

I singoli arredi liturgici sono “icone” la cui forma, disposizione e decoro non sono indifferenti alla funzione liturgica alla quale la chiesa partecipa nel suo insieme.

Propongo così una diversa mensa per quel luogo, per quella chiesa che vivono come una casa. Tuttavia ristudiare proporzioni, forme, materiali e cromie non sarà sufficiente. Quei nuovi oggetti perché possano partecipare da subito al coro complessivo delle ormai consolidate energie di quel luogo devono essere caricate di significati. Lo farò attraverso il lavoro degli artigiani che si occuperanno della costruzione di questi arredi liturgici. Sono convinto infatti che l’energia, che anche gli oggetti indubbiamente possiedono, viene garantita da un progetto accurato, ma soprattutto dal lento e minuzioso lavoro di chi li costruisce. Per questo penso a materiali da levigare a mano come il legno e il ferro e alla doratura, una tecnica che ha bisogno di strumenti adatti e saperi antichi.

La foggia, la scelta del materiale e l’esatto collocamento, se pur in una per me imprescindibile interpretazione contemporanea, dovevano essere calibrati e misurati all’insieme architettonico della Chiesa per l’Adorazione la cui centralità è indubbiamente definita dall’altare preesistente, ancor più divenuto punto focale di riferimento dell’aula dopo l’eliminazione delle balaustre a seguito dell’adeguamento liturgico.

La nuova mensa, se pur pensata come elemento di grande dignità e preziosità, non poteva essere monumentalizzata, lasciando quale principale protagonista l’originario altare in marmo rosa al quale si sarebbe legata per il materiale e relazionata con linee leggere.

È proprio da qui che prende spunto il progetto del nostro altare, tutto incentrato sulla nuova mensa in lastra monolitica di marmo Rosa del Portogallo trovata identica per filigrana all’originale (…”e la pietra era Cristo”… S. Paolo).

Nuovo ambone e nuovo altare.

La lastra si differenzia dal suo fondale per la leggerezza delle forme costituendo un piano orizzontale che si assottiglia sui bordi trasformandosi in una linea sospesa.

La struttura di sostegno, (arretrata rispetto al piano) poggiante direttamente sul pavimento del presbiterio senza pedana – verranno così liberati e riportati alla dimensione originaria i tre gradini che separano l’aula – è costituita da un fascio di 4 gambe lignee, ricoperte di foglia di oro zecchino, sul quale il piano si sospende appena staccato da una struttura in piatto di ferro dipinto in velatura rosso cupo/rosato come nelle icone medievali.

L’ambone uguale a uno degli elementi del basamento dell’altare, è anch’esso realizzato in legno rivestito in foglia d’oro zecchino con leggio in lastra metallica di un centimetro di spessore come il bordo dell’altare. Per rendere più ampia e agibile l’area presbiterale le sedi vengono riproposte, come all’origine, in nicchia rimuovendo il solo basamento in marmo Rosso Francia aggiunto ai lati dei gradini dell’altare preesistente.

Fondamentale a questo punto la lavorazione manuale e artigianale dei due manufatti che in questo modo si caricano di “energie sottili” diverse da una lavorazione industriale.

La foglia d’oro zecchino è stata posata dai doratori con l’antica tecnica a bolo, lucidata a pietra, e la mensa è stata tagliata a macchina, ma assottigliata a mano.

L’opera di doratura.

L’elegante e discreta luminosità che l’opera emana proviene dalla sinergia e dalla passione del falegname, del fabbro, del decoratore, del marmista e dell’architetto che hanno lavorato assieme.

Il presbiterio illuminato nella sera dai riflessi dorati.

Più o meno nello stesso periodo è stato Marco, capomastro di Bergamo, a chiedermi di pensare a un grande Crocefisso per la parrocchia di Huaycan nella diocesi di Chosicha, che fosse in grado di ricordare il loro lavoro in Perù. Sapevo della “missione” di questi bergamaschi che da qualche anno da dicembre a febbraio donano gratuitamente la loro opera di capomastri, carpentieri, muratori, artigiani per il solo piacere di aiutare il prossimo anche in nome di una fede.

Ho subito pensato a una Croce e a un Cristo che potessero uscire dalle loro mani con i materiali più semplici del loro mestiere. Barre di ferro di diversi diametri quotidianamente usati come ossatura nel calcestruzzo.

La croce composta da tondini di ferro.

Un Crocefisso dove croce e uomo si distinguono solo da vicino. Un corpo in tondino di ferro da costruzione sostenuto da barre più pesanti da pilastro.

Un segno nello spazio dove il vento e la polvere passano attraverso. Dove la luce mutevole si impiglia, viene trattenuta e poi passa con le sue ombre, nel suo eterno movimento sempre diverso come l’arbitrio umano, come la storia, le ansie degli uomini.

Sette metri di altezza. Una croce. Un Crocefisso scarnificato nella passione, nell’incredulità degli uomini che come formiche gli vanno incontro e cercano la fede in mezzo alle opere della terra.

Monastero di Siloe, la Cappella della Luce,
Monastero di Siloe, la sala del Capitolo.

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