Intervista a cura di Michela Beatrice Ferri
Una domanda essenziale: qual è la relazione dell’artista Elvis Spadoni con il tema del “Sacro”?
Se intendiamo “Sacro” come qualcosa che si ben distingue e si contrappone al “profano” io ho verso di esso un moto di forte diffidenza perché non credo che esista qualcosa di “sacro” così inteso. Da questo punto di vista la mia attitudine è del tutto profanatrice. Senza inchini né reverenze. Mi ritrovo invece nelle parole di Pier Paolo Pasolini e nel suo sguardo religioso sul mondo: “ogni oggetto per me è miracoloso”. Tutto per me è luogo del sacro: la foglia di un albero, uno straccio per terra, un vecchio che si trascina. In ogni realtà sacro e profano danzano insieme. Chi circoscrive il sacro è come se spegnesse la musica del mondo.
Credo che l’arte abbia un ruolo speciale nell’aiutare le sguardo di ciascuno a esperire questo mistero danzante nelle cose, non estraendo il sacro dal mondo come se fosse un’essenza da racchiudere in ampolle sigillate ma mostrando precisamente “la relazione” inscindibile fra il divino e il fango. È un sacro “diffuso”, che tiene unita la creazione; è la bellezza a cui l’arte può convertirci.
Poiché credo che questa unione fra terra e cielo trovi un momento eccezionalmente luminoso nelle narrazioni della tradizione religiosa ebraica e cristiana, quando esse divengono soggetto di espressioni artistiche reputo che tali opere siano particolarmente predisposte e feconde nel rivelare questo misterioso abbraccio. Per questo, posto che tutta l’arte è sempre rivolta al sacro, per comodità e per rispetto a queste fedi le distinguo definendole più precisamente “arte sacra”.
Personalmente, quando tratto questi temi, mi rapporto al sacro con molto pudore cercando di prediligere scene e momenti quotidiani e semplici, pose poco solenni, volti sfuggevoli se non nascosti e la messa in risalto del corpo. Tutti escamotage per ridurre la dose di “autorità” del quadro. Il sacro deve essere “suggerito”, accennato con delicatezza per non spezzarne l’alchimia. In particolare utilizzo una composizione dove c’è una fortissima luce bianca che riempie grandi spazi del quadro e penetra nelle luci dei personaggi. Esso rappresenta lo spazio del sacro, ineffabile, che si relaziona alle figure, spazio del profano. Esso può essere pienezza della luce inaccessibile ma anche semplicemente vuoto. In questa presenza-assenza, ampia ma silenziosa, io mi rappresento il Sacro.
Concentrando l’attenzione sulla produzione artistica riferita ai temi “religiosi”, voglio chiedere: in base a quale criterio avviene la tua scelta di un momento della narrazione evangelica, di un personaggio?
La scelta del soggetto avviene in modo spontaneo. Ho studiato molti anni in seminario, ho letto e studiato (e leggo e studio) la Bibbia quindi è un mondo che conosco bene.
A un certo punto un brano o un personaggio mi paiono particolarmente significativi e spesso a questa idea segue a breve una intuizione compositiva per un quadro. Spesso, anzi, praticamente sempre, scopro che questo dipinto ha una forte richiamo a qualcosa che sto vivendo in quel momento. Ad esempio feci un quadro dedicato a Davide mentre sceglie i sassi per sfidare Golia, in un momento in cui sentivo necessario per la mia vita un atteggiamento simile, cioè puntare con coraggio su qualcosa che appare a prima vista poco efficace.
“David”, “Goliath”, un tuo autoritratto sovrapposto al dipinto di San Girolamo, la tua presenza nel momento della cena di Emmaus, e poi ancora “Under Your Protection”. Qual è il motivo di questa tua “presenza” nello spazio pittorico che appartiene (per pura fruizione) alla scena religiosa?
La mia presenza nelle opere è un mio leit motiv. La prima ragione è che tutti questi quadri che citi hanno una forte componente autobiografica. Del “David” ho già parlato, le citazioni di Caravaggio (San Girolamo ed Emmaus) sono racconti dei miei anni in seminario, “Sotto la tua protezione” era una preghiera che dedicavo a me stesso. La domanda giusta allora potrebbe essere “perché questa necessità dell’autobiografia?” Me lo sono molto domandato anche io dato che è un moto irriflesso e non una scelta consapevole. E credo che la risposta sia… autobiografica. Ho passato molti anni in un percorso di vita che scelsi non tenendo conto di quale fosse la mia indole, mettendo come da parte quello che ero e che desideravo. E ora, con la pittura, mettendomi sotto i riflettori, sto probabilmente ripagando un debito verso me stesso: voglio sapere chi sono.
Sul ciclo “Arte Sacra”. Qual è il significato dell’opera “Le lacrime di Dio” ? Sono carichi di studio del corpo e di analisi simbolica i tuoi due omaggi a due figure: San Francesco (“Seguire Nudo Cristo Nudo”) e Alberto Marvelli (“Io. Alberto”) – puoi parlarci di queste due opere?
Le lacrime di Dio è un’opera collettiva e interreligiosa dove il mio contributo pittorico costituiva la componente cristiana. L’opera nasce da un video di un’artista di fede ebraica sul tema delle lacrime che sarebbe stato proiettato su una mia tela. Presentai allora la scena che nei vangeli mosse il pianto di Gesù: la morte di Lazzaro e il dolore delle sorelle di lui. Volevo che la scena descrivesse la morte di ogni uomo di fronte al quale Dio continua a versare le sue lacrime. Per questo la salma anonima di Lazzaro è al centro della composizione, steso a terra e totalmente avvolto in un sudario come i cadaveri in marmo di All di Maurizio Cattelan, perché la sua identità fosse idealmente quella di ogni uomo. Solo un accenno di mano sembra sfuggire al telo che lo copre: è il desiderio umano di rimanere aggrappati alla vita e non lasciare alla morte l’ultima parola. La posa, perfettamente longitudinale, immette anche il Cristo in questa condizione perché è una citazione del Cristo morto di Holbein il giovane, probabilmente uno dei quadri più eloquenti e inquietanti sul tema della morte in cui il Cristo appare pienamente immerso. Ai lati, il pianto delle sorelle, anch’esse anonime e avvolte nei loro vestiti/sudari.
Il dipinto dedicato a San Francesco (Seguire nudo Cristo nudo) nacque come una riflessione sul fenomeno della body art e dell’uso provocatorio del corpo nudo in arte. San Francesco fece in fondo qualcosa di molto simile quando si denudò in piazza per indicare la sua totale conversione al Padre dei cieli, scena che è il soggetto del quadro. L’obiettivo del dipinto è quello di mettere in luce una connessione fra la tradizione cristiana e il linguaggio contemporaneo dell’arte.
Come in San Francesco, anche per Alberto Marvelli (Io, Alberto) sono io a dare volto e corpo al protagonista ma in questo secondo caso è proprio quest’azione di mimesi, camaleontica direi, che diviene fulcro concettuale del quadro. I santi sono nostri modelli, a cui siamo chiamati ad assomigliare. Io ho declinato questa idea letteralmente cercando di prenderne più possibile le sembianze, nei vestiti, nello sguardo, nella posa, e sostituirlo effettivamente nel dipinto. Può apparire un gioco, quasi una profanazione. In realtà vuole essere la rappresentazione del desiderio di imitazione del modello e l’idea che solo nella nostra vita e nel nostro corpo può incarnarsi il carisma che celebriamo e ricordiamo nel santo. In questi due casi l’artista di ispirazione è stato Luigi Ontani.
Vorrei chiederti di dirci qualcosa anche della tua opera “Dalle sue piaghe siete stati guariti”, per la chiesa di San Venanzio di Galliera in provincia di Bologna.
Questo grande trittico presenta la parabola del Buon Samaritano, tema scelto da un parroco per la pala d’altare della chiesa provvisoria che si era resa necessaria dopo che il terremoto in Emilia aveva reso inagibile la chiesa storica. Come il viandante della parabola, anche quella comunità cristiana era stata “percossa” e aveva sperimentato, sia l’indifferenza, sia la carità. Il quadro doveva essere perciò una rilettura di quell’esperienza alla luce di questa pagina di vangelo. È stata per me una bellissima esperienza soprattutto perché, per tutto il periodo della realizzazione ho vissuto e conosciuto quella comunità, a partire dal parroco, e il lavoro è cresciuto assieme a tutti loro, in particolare con un gruppo di ragazzi con cui ho svolto parallelamente un laboratorio di arte e catechesi. Sarebbe troppo lungo descrivere tutto il dipinto anche solo nelle sue idee basilari di composizione. Mi limito a parlare dell’idea centrale. Nei giorni in cui riflettevo su come impostare il quadro mi capitò per caso di raccogliere da una grata sotto terra un gatto in fin di vita. Ritenevo la scena del samaritano che soccorre il moribondo un po’ retorica e pietista, banale perfino, ma dopo quella esperienza, dopo che con la mia carne avevo compiuto quel gesto ed ero entrato in contatto con una vita spezzata, tutta la mia percezione era cambiata. Quel gesto non lo pensavo più, lo “sentivo” e capivo di poterlo, anzi, di doverlo dipingere al centro del quado. Così la composizione, divisa in tre scene, ha al centro proprio l’atto del samaritano che si china e solleva il moribondo, il tutto circondato da un grandissimo spazio di silenzio. Ho molto insistito sull’asino che arricchisce la scena centrale e che guarda lo spettatore. Nel suo sguardo innocente e mansueto ho voluto ritrovare lo sguardo di quel gatto e anche dell’innocente per eccellenza, di cui quell’asino è simbolo. Pensavo poi che un asino che ci interpella da sopra un altare, luogo del sacro, fosse scandaloso come fu allora sentire di un samaritano elevato ad esempio.
Qual è per l’artista Elvis Spadoni il futuro dell’Arte Sacra Contemporane?
Difficile parlare del futuro di qualcosa che stenta ad avere persino un presente. Credo ad ogni modo che il suo futuro dipenda da quello dell’arte contemporanea in generale di cui è, volenti o nolenti, un derivato. E quest’ultima versa, a mio modo di vedere, in una fase di declino in cui le grandi idee che l’hanno sorretta nel Novecento si stanno svuotando dall’interno e non sono ormai più condivisibili se non si vuole cadere in una ripetizione del già detto e già fatto. Il futuro dell’arte non potrà essere che una profonda ricomprensione della propria identità, ritornando soprattutto a riconfigurarsi in un’ottica di servizio all’uomo, con l’elaborazione di un linguaggio capace di entrare in relazione con il pubblico tramite il canale della via pulchritudinis, come è proprio dell’arte. Altrimenti si rimarrà confinati nel non-pervenuto della cultura.